Proclamati ieri, nel corso del XXII Festival del Cinema di Porretta, i vincitori del V Premio Nazionale Elio Petri. La Giuria – formata da imminenti personalità quali Paola Pegoraro Petri, Steve Della Casa, David Grieco, Alfredo Rossi, Jean Gili, Walter Veltroni, Giacomo Manzoli, Boris Sollazzo, Cristiana Paternò e Silvia Napolitano – oltre ai due premi speciali previsti per il regista Matteo Garrone e lo storico Gian Piero Brunetta, ha assegnato il Premio Nazionale Elio Petri, per la miglior opera prima, a Come pecore in mezzo ai lupi. Abbiamo intervistato la regista, Lyda Patitucci.

Qui per ritirare il Premio Nazionale Elio Petri. Qual è il tuo legame con Elio Petri?

Principalmente, il mio legame è con il luogo in cui ci troviamo, inteso, come Emilia-Romagna. Io sono di Ferrara, ho studiato al DAMS di Bologna. Quindi, per me è un territorio non solo molto familiare, ma che ha contribuito alla mia formazione in tutti i sensi come regista. Innanzitutto, per l’immaginario visivo che è stato influenzato dai paesaggi.

Per quanto riguarda Petri, seguo una linea politica che c’è nei suoi film. Una cosa che mi ha sempre affascinato di lui è la sua direzione degli attori, lo stile recitativo che c’è nei suoi film. Indagine su un cittadino è per me uno dei film che più ha segnato una parte della storia del nostro cinema. Mi ha sempre colpito lo stile recitativo e la direzione degli attori non così comune e scontata in quel momento e molto caratterizzante del suo cinema.

Premio Petri Lyda Patitucci Intervista
Lyda Patitucci riceve il Premio Nazionale Elio Petri da Luca Elmi, Presidente di Porretta Cinema (Ph. Giorgio Barbato per Porretta Cinema)

Qualcuno ti ha definito la action woman del cinema italiano. Effettivamente, con questo film sei alla tua opera prima, ma dopo tantissimi anni di carriera come seconda macchina e di set. Qual è il tuo rapporto con Groenlandia, con cui hai lavorato tantissimi anni e che produce questo tuo primo film?

La definizione mi lusinga molto. Ma mette anche in luce quanto poco cinema di azione si faccia in Italia. Nel mio film ci sono delle parti di azione che sono connaturate con quella che è la storia. Ci sono dei criminali che delinquono e dei poliziotti che li inseguono. Il semplice fatto di avere qualche scena di azione tante volte ha fatto sì che venisse spesso catalogato come film d’azione. Per me che amo molto di film d’azione al 100% il mio non lo è. Però è innegabile che ho preso questa specializzazione perché mi sono ricavata una mia strada, molto personale, all’interno del mercato e dell’ambito lavorativo in cui mi sono mossa. Per me l’azione, ma in generale, la dinamicità come la fisicità sono componenti fondamentali nel cinema. Ho un rapporto molto fisico con la regia, con la macchina da presa, con gli attori. Sento tutto. Quindi, per me è impensabile svincolarmi dall’azione.

Dopo la laurea al DAMS di Bologna e la formazione in regia in Spagna, nel mio ritorno in Italia ho avuto la fortuna di incontrare Matteo Rovere, con cui ho costruito un sodalizio all’inizio sui suoi film, quando ancora era Ascent, con Veloce come il vento. Dopo è nata una maniera, un metodo comune di lavoro, durante il quale in lui cresceva la volontà come produttore di fare anche film di genere e di continuare a sperimentare. Non è stato solo sull’azione. Con lui mi sono occupata anche di effetti speciali, ho lavorato con gli stunt e mi sono occupata di regia tecnica.

Questo, chiaramente, mi ha dato un background che per me era fondamentale, perché questo è il tipo di cinema che io voglio fare. Poi il lavorare con lui sulle serie mi ha permesso di iniziare a lavorare con gli attori e sui personaggi. Successivamente ho cercato di mettere a frutto quanto imparato per iniziare il lungo, anche faticoso percorso che mi ha portato a realizzare il mio esordio, Come pecore in mezzo ai lupi.

Il tuo film segna un ritorno al cinema verità, alla finzione che racconta la società. Questo tipo di cinema quest’anno sembra avere avuto un ritrovato interesse e diffusione. Cosa ne pensi? Ci sono le basi per una rinascita in tal senso del cinema italiano?

C’è sempre stato uno strano contrasto tra come si è sviluppato nel cinema italiano e il tentativo di ricollegarsi e portare avanti la nostra tradizione del nostro neorealismo, con un una presunta volontà di raccontare la società italiana. Cassando completamente i film fantastici, respingendoli come cinema minore, a favore di una politica dell’autore molto forte e respingente. Che ha portato anche ad una forma di snobismo nei confronti di certi generi, che invece hanno caratterizzato non solo il nostro cinema, ma anche grossissimi autori del cinema internazionale.

Premio Petri Lyda Patitucci Intervista
Ph. Giorgio Barbato per Porretta Cinema

Da un lato, quindi, c’era questa volontà e poi siamo arrivati a fare un cinema, tra la commedia e il dramma, che metteva in scena una società assolutamente stereotipata e fuori dalla realtà. Con personaggi che parlano in un modo che non appartiene a nessuno, dicendo cose che nessuno nella realtà direbbe mai. Io credo che questa cosa abbia profondamente stancato. Nel mio caso, invece, ho sempre amato e amo il cinema fantastico, perché credo che più di altri permetta di indagare molti aspetti dell’essere umano o della società, nella forma e nel tono anche molto rigoroso nel cercare di riportare la realtà della nostra società.

A me diverte e piace farlo anche raccontando situazioni diverse dalla mia, a volte anche estreme e che, perché no, potrebbero anche trascendere nel soprannaturale o nel fantastico puro o nel distopico. Secondo me sono generi e forme molto adatte a raccontare il realismo di una società e l’essere umano.

Non so se siamo pronti. Penso che ne abbiamo voglia. Tanto noi che facciamo quanto il pubblico che riceve. Penso e spero che ci siano spazi per questo tipo di cinema. Magari anche grazie alle piattaforme. Che tanto hanno tolto alla sala, ma molto hanno aperto alla possibilità di raccontare storie che vanno un po’ oltre la narrazione comune.

Hai citato l’importanza del rapporto con gli attori e l’equilibrio nella direzione del cast. In Come pecore in mezzo ai lupi ti avvali di due attori come Andrea Arcangeli e Isabella Ragonese che hanno lavorato nel tuo film in modo molto diverso da come eravamo abituati a vederli finora. Come li hai scelti e che tipo di lavoro hai fatto con loro?

Ho avuto una grande fortuna, che deriva direttamente dal rapporto di grande fiducia costruito negli anni con Matteo Rovere. All’atto di scegliere, proporre e cercare gli attori sono stata liberissima. E questo è un privilegio per chi come me lavorava su un’opera prima, in cui spesso nella scelta degli attori un produttore cerca di tutelarsi. Nel caso di Andrea (Arcangeli, NdR), rivendico anche con lui il fatto di averlo scelto per prima. Stava in quel periodo girando la serie Romolus con Groenlandia con Matteo Rovere e lui faticava nel vederlo adatto al personaggio di Bruno. La mia volontà di avere Andrea è stata per il suo stile recitativo. Lo sento sempre molto credibile, molto vero. Ho cercato un attore che avesse esattamente queste caratteristiche. Poi ci siamo conosciuti e c’è stata subito una grande intesa.

Premio Petri Lyda Patitucci Intervista

Con Isabella (Ragonese, NdR) c’è stata altrettanto. Con la differenza che lei non aveva mai lavorato prima con Matteo e, quindi, da parte mia nella scelta c’era anche un senso di responsabilità. Ma quello che mi piaceva e mi interessava era proprio la scommessa di portare un’attrice, che ha fatto tanti ruoli nella sua carriera, a trasformarsi, anche rispetto all’immaginario che fino ad allora era legato a lei. Chiaramente, partendo dalla consapevolezza di avere a disposizione un’attrice molto brava, che ha reso possibile tutto il lavoro fatto.

Per un’attrice a cui, finora, i ruoli proposti sono stati tutti abbastanza stereotipati e spesso di grande riflesso al protagonista maschile, è stata ugualmente una scommessa accettare un ruolo così diverso, perdipiù su un’opera prima. E Isabella è un’attrice a cui piace mettersi alla prova e prendersi dei rischi. Avevamo già avuto un incontro in passato e ci era rimasta la curiosità di lavorare insieme. Io avevo intravisto in lei dei tratti del personaggio di Vera in altri suoi lavori e volevo approfondirli insieme. Il film che mi ha fatto capire che Isabella Ragonese fosse la persona giusto per interpretare Vera è Il padre d’Italia di Fabio Mollo, perché lì, secondo me, fa un personaggio che ha una forza interna e anche delle sfaccettature diverse da quelle di Vera, che però mi hanno fatto capire che fosse giusta per quel ruolo.

Hai citato la tua collaborazione con Matteo Rovere, anche con Sydney Sibillia. Questa contaminazione che hai avuto con loro ha inciso sulla tua personale visione registica o sentivi di avere già un’identità tua?

Credo che nella mia carriera ho avuto la fortuna di fare la regista senza fare la regista. Quando stai iniziando a fare questo mestiere puoi sicuramente fare cortometraggi, video clip o simili. Però a un certo punto si apre una questione legata al fatto che devi capire come fare il regista se in realtà non stai facendo un film e devi ancora esordire. Lavorare come seconda unità a me ha dato la possibilità di imparare cose e poterle mettere in pratica cose che avevo studiato, analizzato o fino ad allora solo abbozzato e di fare esperienza. Oltre a questo, quell’esperienza mi ha dato la possibilità di lavorare a fianco di registi da cui ho imparato tanto. Sono anche una persona molto curiosa. Da tutti quelli con cui ho collaborato ho rubato con gli occhi, cercando di imparare il più possibile. Come tanto ho imparato anche dai montatori. Ho la fortuna di aver potuto fare esperienza ed anche di poter apprendere dall’esperienza altrui. Poi ho una mia visione molto personale. E non penso sia stata mutata da quella degli altri. Ma da loro ho imparato fondamentali aspetti di questo mestiere.

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