Son passati più di tre anni dall’ultima volta che Roma ha visto la pioggia. Il Tevere è ormai diventato un ammasso di terra e polvere e dove c’era il fiume, ora procedono inesorabili e crudeli ruspe per sistemare il terreno. Degli hashtag provano, senza molto successo, ad aiutare i cittadini più disagiati, mentre i più ricchi usano le loro risorse senza ritegno, riempiendo idromassaggi e fontane. Le proteste diventano sempre più animati, mentre i telegiornali annunciano l’ormai vicina chiusura dell’erogazione dell’acqua.

Questo è il pretesto da cui nasce Siccità, il nuovo film di Paolo Virzì, presentato fuori concorso alla 79° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e in questi giorni nelle sale italiane. La sua natura corale sullo sfondo di una tragedia che sa di fine del mondo ha portato molti a paragonarlo, fin troppo frettolosamente, a Don’t Look Up, la critica alla cecità dei potenti davanti al riscaldamento globale firmata da Adam McKay e distribuita da Netflix a fine 2021. Virzì in Siccità usa un approccio radicalmente diverso rispetto a quello della sua controparte americana: la tragedia mostrata non è reale (alcune persone lo hanno definito addirittura un film di fantascienza), sebbene sia plausibile, e anche per questo il regista evita i toni della paternale, cercando di concentrarsi sul grande numero di personaggi coinvolti nella narrazione per studiare le loro reazioni in una situazione così estrema.

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Se in Don’t Look Up la narrazione era guidata dagli scienziati interpretati da Leonardo DiCaprio e Jennifer Lawrence, Siccità non presenta dei veri e propri protagonisti, mostrando piuttosto una galleria di personaggi ugualmente innocenti e colpevoli tra diversi mestieri e classi sociali. Antonio (Silvio Orlando) rimane a Rebibbia perché fuori dal carcere non avrebbe una casa, Loris (Valerio Mastandrea) ignora la sua salute decadente per guadagnare qualcosa col suo taxi, Alfredo (Tommaso Ragno) pubblica video sui suoi canali social per consolare i cittadini, Sara (Claudia Pandolfi) è una dottoressa in una relazione estremamente infelice con Luca (Vinicio Marchioni) mentre Raffaella (Emanuela Fanelli) è la messaggera di una ricca famiglia proprietaria di alberghi davanti alle folle in protesta. Ogni personaggio segue una sua parabola, incontrando naturalmente quelle altrui come nella tradizione del film corale. L’incontro e l’inevitabile scontro servono ad arricchire il discorso portato avanti dalla sceneggiatura firmata da Francesca Archibugi, Paolo Giordano, Francesco Piccolo e Paolo Virzì. Il numero sproporzionato di trame presentate sfocia in un assurdo tentativo di condurle tutte verso un finale quanto più possibile univoco e per questo irrimediabilmente forzato.

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Siccità è un film corale che funziona meglio quando si concentra sull’individualità, quando anziché veicolare le paure di tutti, guarda alla dimensione del singolo. Particolarmente toccante è la sottotrama dedicata ad Antonio, un’Odissea in una Roma in rovina per tornare a casa, ma la sceneggiatura finisce per perdersi seguendo storie più drammatiche e teatrali e quelle più sentite finiscono presto in secondo piano. Si tratta senza dubbio di un film che sogna in grande, soprattutto per lo scenario italiano. Alcuni in conferenza stampa a Venezia hanno voluto definirlo il film della ripartenza delle sale, un titolo che da un anno e mezzo viene affidato ciclicamente a un’opera a scelta con un cast di rilievo e un budget inusuale per il cinema italiano. Siccità non deve essere per forza un film che sa di salvezza, anche perché la gioia è forse l’aspetto più artificiale della sua narrazione: è una storia guidata dalla malinconia che forse potrebbe donare al pubblico una strana e desiderata sensazione di conforto.

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