ILVA IS A KILLER

Così recita un graffito sulla tettoia della fermata dell’autobus dove ogni giorno scendono i dipendenti delle acciaierie di Taranto per recarsi a lavoro. Il graffito è parte della loro routine quotidiana, una voce nelle loro teste, una consapevolezza che non può mai rendersi manifesta. Il graffito, più che per quella processione funebre sullo schermo, è per il pubblico in sala. Mettendo in primo piano quel graffito il pubblico diventa complice di un segreto di Stato, di solo uno dei tanti luoghi dove il lavoro si è trasformato da diritto in condanna.

Con Palazzina LAF, Michele Riondino debutta alla regia per raccontare una storia della sua terra, il primo caso di mobbing documentato della storia giudiziaria italiana. In questa storia l’attore sceglie tuttavia di non inserirsi come eroe, ma come complice del sistema, come Giuda. Il suo Caterino Lamanna difatti è da tempo una spia per il giovane dirigente di Ilva, Giancarlo Basile (Elio Germano): intercetta i tentativi di ribellione, i malumori tra i dipendenti soprattutto in un momento in cui la televisione continua ad elencare sempre nuove morti sul lavoro. Accetta di essere una spia perché gli appare come l’unico modo per migliorare la sua condizione. Una macchina e un nuovo incarico potrebbero bastargli per essere felice, ma quando nell’inseguimento di un collega finisce a Palazzina LAF e vede persone prendere il sole e chiacchierare tra di loro, richiede di essere trasferito lì senza tuttavia poterne immaginare le conseguenze.

La Palazzina LAF che da il titolo al film, difatti, non è un luogo di vacanza o una ricompensa per i dipendenti migliori: è un reparto di confinamento, un purgatorio dove le giornate si assomigliano tutte e dove la salvezza appare come un’ulteriore condanna. Qui Ilva riunisce gli operai più scomodi per annientarli, in un mondo di frustrazione, di risposte che non arrivano mai, in un corridoio lungo fatto di persone che sembrano aver perso la loro stessa identità.

Partendo dal libro-inchiesta Fumo sulla città del giornalista Alessandro Leogrande, Michele Riondino con Palazzina LAF riflette sul diritto che la Costituzione italiana si impegna tanto per proteggere, senza però offrire un trattamento simile a chi lo esercita. L’articolo 4 che il film mostra in chiusura risulta essere in casi come quello dell’Ilva una mera menzogna. Riondino osserva le contraddizioni del mondo del lavoro come in un teatro del grottesco, dove la ribellione si piega su se stessa e dove oltre al funerale dell’ennesimo operaio morto, si celebra anche la morte del lavoro. Palazzina LAF non concede sconti, né desidera semplificare il dramma vissuto dai dipendenti in confino. Sa che prima di essere un mero film, è un’opera di informazione in grado di mantenere vivo il ricordo di un caso di cronaca tristemente dimenticato.

È un’opera soprattutto che è impossibile scindere dall’impegno politico e sociale di Michele Riondino, che da dieci anni si occupa della direzione artistica del Primo Maggio a Taranto a Roy Paci e Diodato (che per il film firma la canzone che accompagna i titoli di coda, La mia terra). Solo da un rapporto così stretto con la propria terra, una fedeltà con le sue lotte, ma anche un riconoscimento dei fallimenti del proprio paese può nascere Palazzina LAF. Come ricorda uno dei cartelli che chiude il film, la vicenda raccontata non si è chiusa sul finire negli anni 70’, ma che continua taciuta in Italia, ed è solo mantenendo attiva la memoria di questi casi e continuando la ribellione contro l’oppressione che la lotta non andrà perduta.

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