Pochi giorni fa Twitter ha annunciato che Euphoria è per il momento la serie televisiva più discussa del decennio con più di trenta milioni di tweet dedicati nel corso della seconda stagione, andata in onda tra il 9 Gennaio e il 27 febbraio. Si parla di un incremento del 51% rispetto ai primi episodi, risalenti al 2019, e sarà probabilmente destinato a crescere ancora con la terza stagione già annunciata dal network. Euphoria è capace, come poche serie al giorno d’oggi, di monopolizzare i social: ogni episodio ha generato una sorta di reazione a catena, fatta di meme (due su tutti: Maddy che dice “Bitch, you better be joking” e Put her on Euphoria and Nate Jacobs is done), reaction video e teorie su possibili sviluppi della trama. È importante, tuttavia, evidenziare che il maggiore riscontro in termini di risposta social può essere attribuito a due fattori, completamente sovrapponibili ma di segno opposto: un incremento nel pubblico della serie (anche derivato dalla distanza temporale tra la prima e la seconda stagione) e le continue controversie.

L’adolescenza senza censure – La prima stagione di Euphoria e gli speciali

Ancora prima della messa in onda, The Hollywood Reporter pubblicò un articolo dove denunciava in modo dettagliato gli aspetti più espliciti di Euphoria, menzionando una scena dove sullo schermo apparivano circa 30 peni. Per l’attrice Maude Apatow (Lexi nella serie), si trattava solamente della via più semplice per mostrare quanto sia difficile crescere al giorno d’oggi e in generale, la serie non puntava a creare particolare scalpore.

Nella prima stagione di Euphoria, le discussioni settimanali sui social, dopo il primo stupore per le continue scene di nudo, riguardavano quasi completamente i comportamenti dei personaggi, a cui il pubblico iniziava ad affezionarsi. Ogni episodio era dedicato a uno di loro, lasciando tempo per lo sviluppo di una backstory e delle loro corrispettive trame.

Dopo la fine della prima stagione nell’agosto 2019, ci fu più di un anno di completo silenzio stampa, le riprese erano state rinviate dalla pandemia e lentamente la serie sembrava essere uscita dalle menti dei fan.

Tra il dicembre 2020 e il gennaio 2021 uscirono, quasi a sorpresa, due episodi speciali – “Trouble Don’t Last Always” e “Fuck Anyone Who’s Not a Sea Blob” – che sembravano annunciare una direzione completamente diversa per la serie. Dedicati rispettivamente a Rue (Zendaya) e a Jules (Hunter Schafer), presentavano difatti un’estetica radicalmente diversa, spogliata dagli eccessi immaginifici e musicali a cui Euphoria aveva abituato il pubblico. L’attenzione tornava sulle storie, sui problemi dei personaggi riducendo quei due episodi a delle lunghe conversazioni.

In Trouble Don’t Always Last, Rue riusciva finalmente a parlare con il suo consulente (Colman Domingo) non solo della sua dipendenza, ma anche del suo difficile rapporto con la religione e dei suoi sentimenti per Jules. Fuck Anyone Who’s Not a Sea Blob, unico episodio della serie a non essere scritto solamente da Sam Levinson (punto su cui torneremo), riusciva invece grazie all’esperienza personale di Hunter Schafer a trattare tematiche ancora rare in televisione come ad esempio l’identità di genere sia vissuta che percepita come qualcosa in evoluzione più che fisso.

I primi dubbi su Sam Levinson

Le speranze del pubblico morirono qualche settimana dopo con il rilascio su Netflix di Malcolm & Marie, film diretto e scritto da Levinson come hobby durante il primo lockdown e che vedeva protagonista Zendaya. Pubblicizzato come una versione più snob del Marriage Story di Noah Baumbach, venne subito criticato dalla critica e dal pubblico, che lo vedevano come una mera valvola di sfogo verso recensioni negative ricevute in passato approfittando dello scudo della finzione. Emergevano così per la prima volta le debolezze della sceneggiatura di Levinson, che in Euphoria venivano nella maggior parte dei casi seppellite sotto la ricerca estetica maniacale.

La seconda stagione di Euphoria, completamente diretta (nella prima stagione c’erano anche altre registe) e scritta da Levinson, ha reso ancora più evidenti i limiti del suo creatore. Abbandonata la presentazione dei personaggi che rappresentava il fil rouge dei primi episodi, la serie si trovava senza un vero e proprio percorso delineato, provando ad inserire trame senza mai concluderle e a distrarre lo spettatore dai salti temporali attraverso bizzarre scelte artistiche (vedesi le oltre trenta canzoni diverse inserite solo nel primo episodio).

La passione dei fan si trasformò presto in confusione tra l’affetto provato per le storie di Rue, Jules e degli altri e tra le discutibili scelte di Levinson. La prima fu quella di introdurre un nuovo personaggio, Elliott (Dominic Fike), elemento di disturbo nella relazione tra le due protagoniste. Hunter Schafer stessa in un’intervista per The Cut ha espresso i suoi dubbi a riguardo, chiedendosi perché avessero scelto di inserire un ragazzo nel mezzo di una delle poche coppie lesbiche presenti in televisione. Per la serie si trattava difatti di un passo indietro dopo i discorsi sulla comphet (compulsory heterosexuality, con questo concetto ci si riferisce ai modi in cui la società impone l’eterosessualità come norma) fatti da Jules nell’episodio speciale a lei dedicato.

Già dal secondo episodio, il nome di Levinson iniziò ad entrare nei trending topic ogni settimana subito dopo l’episodio a causa delle critiche. Era evidente che la stagione si sarebbe concentrata molto su Nate (Jacob Elordi), uno degli effettivi “villain” della serie, regalandogli un “redemption arc” ingiustificato e così facendo lasciando in disparte quasi ogni membro del cast principale.

Personaggi dimenticati

Senza più il focus episodico, Euphoria non risulta capace di gestire i tempi delle diverse storyline: se uno dei protagonisti della scorsa stagione, il McKay di Algee Smith, è stato relegato a un semplice cameo nel primo episodio, Jules e Kat (Barbie Ferreira) son state vittime di un trattamento più spregevole. Da co-protagonista, il personaggio di Hunter Schafer si è trasformato in un mero spettro, device narrativo prestato alle storie altrui e mai posto al centro.

Il caso di Kat è stato ancora più eclatante se possibile. Al debutto di Euphoria la serie aveva ricevuto il plauso del pubblico per aver portato per una volta sullo schermo una persona grassa, fiera di se stessa e sicura della propria sessualità, seppur con i soliti complessi connessi al teen drama. Nella seconda stagione Kat è stata quasi del tutto assente, alcune sue scene risultavano evidentemente tagliate nel parlato (il caso più evidente è la scena nell’idromassaggio al compleanno di Maddy) e negli unici momenti a lei dedicati, si comportava in modo inusuale per il suo personaggio. Dopo aver lottato nella prima stagione per accettare l’amore di Ethan (Austin Abrams), in “A Thousand Little Trees of Blood” (un giorno parleremo anche dei titoli inutili e fintamente poetici della serie), la ragazza ha scelto di ricorrere al gaslighting, dando tutta la colpa a lui, senza che la serie sia stata capace un percorso tale da giustificare la scena. Voci insistenti parlavano di una divergenza creativa e personale tra l’attrice e il creatore della serie, confermata anche dall’assenza della prima alla première della seconda stagione.

L’eccessiva nudità

Nel corso della prima stagione Euphoria aveva sconvolto per l’ampia presenza di nudità, non solo femminile ma anche maschile. Durante la messa in onda dei nuovi episodi si è iniziato presto a pensare se questa non fosse eccessiva. Quattro attrici, Sydney Sweeney, Chloe Cherry, Martha Kelly e Minka Kelly, hanno ammesso in interviste di aver rifiutato scene di nudo perché si sentivano a disagio o perché le ritenevano superflue ai fini della narrazione. Sam Levinson si è dimostrato collaborativo, acconsentendo alle loro richieste, ma è impossibile non chiedersi perché quelle scene fossero presenti in partenza.

Un finale che non lascia vie di scampo

Lo sguardo di Euphoria, quello che agli inizi veniva pubblicizzato come un ritratto sincero e crudo della adolescenza oggi, si è trasformato presto in una feticizzazione non solo dei corpi, ma anche del dolore. Ogni evento traumatico nella serie è sempre mostrato attraverso inquadrature estrose (è anche girato in pellicola, come suole ricordarci almeno un articolo/thread su Twitter a settimana) che non fanno altro che ovattare la problematica rappresentata trasformandola in qualcosa di piacevole agli occhi. Solo talvolta la serie è stata capace di offrire delle tracce di quello che era nella prima stagione – il riferimento è soprattutto allo spettacolo messo in piedi da Lexi – ma l’episodio finale, andato in onda stanotte, è apparso come la definitiva morte della serie.

Sospeso tra confusi flashback e flashforward, “All My Life, My Heart Has Yearned for a Thing I Cannot Name” è stato capace di aprire dieci possibili spiragli di trama e a non portarne avanti nessuno, preferendo lasciare tempo a scene già viste in precedenza (il discorso di Rue al funerale del padre, ormai propinatoci tre volte) e una scena musicale totalmente ingiustificata della durata di almeno tre minuti (ma percepiti quindici). Se la prima stagione si era conclusa in modo esplosivo e interessante,  lasciando allo spettatore qualcosa su cui teorizzare nel mentre, qui la serie ha scelto invece di indicare un insensato salto temporale che elude tutte le trame irrisolte della stagione. Euphoria è ormai stata rinnovata, ma se vuole salvarsi la soluzione è unica: lasciare Levinson dietro alla macchina da presa e aprire la writer’s room, accogliendo persone capaci di rispettare i personaggi a cui il pubblico è affezionato e soprattutto i loro interpreti.

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