Da anni il biopic è diventato la strada più sicura per arrivare agli Oscar. Parlando di persone realmente esistite e conosciute dal grande pubblico, è più facile immaginare l’impatto di una storia, che esiste già e deve solo essere adattata dallo sceneggiatore ai tempi cinematografici. Soprattutto il biopic è un terreno fertile per l’attore che, attraverso una trasformazione vocale e/o fisica a seconda delle necessità, riesce a dimostrare le sue capacità e a convincere i membri dell’Academy. Dal 2002, secondo gli studi effettuati da Ben Zauzmer nel suo libro Oscarmetrics, circa il 50% dei candidati nelle categorie attoriali ha interpretato un personaggio realmente esistito. Se si guarda solo ai frontrunner di questa stagione, si hanno Will Smith con il suo ritratto di Richard Williams in King Richard, Kristen Stewart nei panni di Diana Spencer in Spencer e Nicole Kidman come Lucille Ball in Being the Ricardos. Anche film accolti tiepidamente dalla critica come Respect rimangono rilevanti in ottica premi proprio per essere biopic: Jennifer Hudson, per la sua interpretazione di Aretha Franklin è stata nominata ai SAG Awards, uno dei premi più indicativi per capire la direzione degli Oscar.

L’unico vero problema dei biopic è la scelta della persona da rappresentare. Che vita o frammento di vita può esserne oggetto? Come può una vita – ciò che c’è di più naturale sulla Terra – diventare un film senza trasformarsi in qualcosa di artificioso? Gli occhi di Tammy Faye propone una risposta interessante a questo quesito, scegliendo come soggetto Tammy Faye, una figura cardine della televisione cristiana negli Stati Uniti che già di per sé è un personaggio che potremmo definire “larger-than-life”. Folte ciglia finte, ombretto glitterato, labbra viola e lucide demarcate da una linea tatuata per comodità e capelli rossi e cotonati: quando si tratta di Tammy Faye, è facile cadere nella caricatura e Jessica Chastain, chiamata a interpretarla, sceglie di ridarle la dignità che gli scandali le hanno tolto nel corso degli anni.

Gli occhi di Tammy Faye di Michael Showalter, nelle sale italiane da oggi 3 Febbraio, si basa sul documentario omonimo uscito nel 2000, diretto da Fenton Bailey e Randy Barbato e narrato da RuPaul, dove Tammy Faye stessa (morta poi nel 2007) ripercorreva la storia dell’impero televisivo costruito insieme a suo marito, Jim Bakker (interpretato nel film da Andrew Garfield). I due si conobbero nel 1960, al college, e scoprirono subito di avere in comune una forte fede e il desiderio di diffonderla. Conquistarono in fretta uno spazio televisivo tutto loro: Jim and Tammy, un programma destinato ai bambini sulla CBN. Per avere più libertà e per permettere a Tammy di usare il suo spazio anche per trattare urgenti tematiche sociali di quegli anni come la pandemia di AIDS, scelsero di creare un canale, PTL (Praise the Lord). Con il successo lentamente iniziarono a crescere i dubbi del fedele pubblico sulla gestione delle donazioni da parte della rete, ma anche sul comportamento di Jim Brekker.

Successo – Problemi – Fallimento: il film di Micheal Showalter porta sullo schermo una parabola molto essenziale, ascrivibile a una sorta di amaro viaggio dell’eroe. Lascia che sia Jessica Chastain con la sua interpretazione a guidare il film, mentre gli altri attori (oltre a Andrew Garfield, troviamo anche Vincent D’Onofrio nei panni di conservatore Jerry Falwell e Cherry Jones come madre di Tammy) le fungono da supporto e cornice. È un’interpretazione ingombrante, che rischia a volte di soffocare la regia esile di Showalter, ma profondamente umana, perché capace di mostrare la persona dietro il look stravagante. Il film glissa su alcuni aspetti della sua vita privata e nello specifico del suo rapporto con Brekker per preservare la sua importanza sociale e politica: Tammy Faye ha usato la sua fama per dare spazio alle minoranze, spesso ignorate o indicate come “innaturali” dalla Chiesa Cattolica.

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