Guillermo Del Toro è sempre stato affascinato dal mondo dei mostri. I suoi film son stati abitati nel corso degli anni da goblin, demoni, elfi, fauni, creature acquatiche, ma laddove altri registi preferiscono approcciarli come entità disturbanti da eliminare per mantenere la quiete, Del Toro vede qualcuno degno di amore e di rispetto. Ha reso l’arte di conoscere e capire anche quello che, fin dall’infanzia, ci viene insegnato a temere, il fulcro del suo cinema. Se si pensa ad esempio a La forma dell’acqua (2017), la creatura anfibia interpretata da Doug Jones viene vista dalla protagonista come l’unica via di scampo dalla solitudine che vive ogni giorno. I mostri di Del Toro sono fonte di speranza e per questo non stupisce che Nightmare Alley, il suo primo film completamente umano, sia il più disperato e angosciante.
Adattamento dell’omonimo romanzo del 1946 di William Lindsay Gresham (già portato sul grande schermo da Edmund Goulding nel 1947), Nightmare Alley segue Stanton Carlise (Bradley Cooper), un uomo dal passato misterioso che si presenta al circo gestito da Clem Hoatley (Willem Dafoe) con solo una borsa e una radio. Riesce grazie al suo grande charme a capire i meccanismi della compagnia e a conquistare i favori della psichica Zeena (Toni Colette). Grazie all’aiuto di Pete (David Strathairn), un uomo buono ma spaventato dallo spiritismo che lui stesso un tempo praticava, Stanton impara le basi del mentalismo e inizia lentamente a ritagliarsi uno spazio all’interno della compagnia, promettendo a Molly (Rooney Mara), la donna elettrica del circo, che la porterà lontano, dove saranno liberi di fare un numero tutto loro. Il film allora compie un improvviso salto di due anni, trasportando il pubblico in un futuro in cui l’uomo ha trovato il successo e scoperto l’arte della truffa anche grazie all’aiuto dell’affascinante psicologa Dr. Lilith Ritter (Cate Blanchett).
Nightmare Alley, basandosi sulla dicotomia di “Man or Beast?”, esplicitata in modo quasi didascalico da Clem Hoatley, sembra un tentativo da parte di Del Toro di capovolgere il cuore del suo cinema, per dimostrare che gli uomini son sempre stati i veri mostri della sua produzione. La storia di Gresham è il terreno perfetto per una simile analisi, ma l’eccessiva fedeltà con cui lo stesso Kim Morgan e Del Toro approcciano il testo mescolata con un’atmosfera che strizza l’occhio al cinema noir degli anni ’40 (in cui è ambientata la pellicola) porta il regista, soprattutto nel secondo atto, in terreni che per natura non gli appartengono e che lo spingono a spargere indizi che potrebbero indicare percorsi narrativi molto più interessanti e ispirati, ma che finiscono per scontrarsi con una risoluzione affrettata e improvvisa.
Il problema più grande di Nightmare Alley è tuttavia riconducibile a due spiacevoli scelte di casting. Bradley Cooper risulta solo a tratti credibile nei panni di Stanton Carlise, essendo troppo rigido e spento per seguire la sua evoluzione soprattutto nella seconda parte del film. A Rooney Mara viene concesso uno spazio più ampio rispetto alla Molly nel film di Goulding, ma non le viene dato comunque sufficiente materiale, costringendola per la maggior parte del tempo a guardare le azioni di Carlise con occhi pietrificati. Cate Blanchett, al contrario, trova in Nightmare Alley il suo habitat naturale: con voce vellutata, movimenti lenti e ipnotici, pare provenire dal passato, dall’età d’oro di Hollywood, per condurre Stanton Carlise verso i suoi personali inferi.