Quando si parla di provocazione, si è soliti concentrarsi sulla sua specifica arroganza, sul suo inerente bisogno di spingere un’idea come superiore alle altre. La provocazione, però, non deve per forza essere questo: può anche essere apertura di sguardi, una spinta per permetterci di capire meglio la vita con nuovi occhi. Con Origin, Ava DuVernay vuole provocare lo spettatore, costringerlo a riconsiderare alcuni concetti spesso eccessivamente semplificati nella contemporaneità, attraverso le parole e la vita della giornalista e autrice premio Pulitzer Isabel Wilkerson.

In concorso all’80° Mostra d’arte cinematografica di Venezia, Origin si concentra soprattutto sulla stesura da parte di Wilkerson (Aunjanue Ellis-Taylor, nominata come miglior attrice non protagonista per la sua interpretazione come Brandi Williams in King Richard) del saggio Caste: The Origins of Our Discontents, definito come “una decostruzione illuminante delle gerarchie sociali e della distruzione che hanno causato in tutto il mondo”. L’approccio scelto da Ava DuVernay, che firma anche la sceneggiatura, intreccia la vita dell’autrice e le tragedie personali che ha affrontato nel periodo della scrittura con un viaggio talvolta immaginifico talvolta estremamente lucido nel presente e nel passato.

Origin è forse più un saggio che un film: non segue le vere regole della narrativa e si lascia guidare dal desiderio di mostrare il processo intellettuale di Isabelle Wilkerson, passando per i suoi incontri, che questi siano di persona o attraverso i libri che legge per conoscere punti di vista altrui, e per i suoi viaggi, che la conducono anche in India per conoscere i Dalit, i cosiddetti fuori casta della società locale.

Quando le viene chiesto all’inizio del film di scrivere un articolo su Trayvon Martin, un teenager ucciso mentre tornava a casa in Florida nel 2012, Isabelle rifiuta dicendo che lei non scrive domande, ma risposte. Non si tratta tuttavia di risposte fisse, scritte nella pietra, ma di spunti di riflessione, di ulteriori ricerche che si plasmano grazie all’ascolto. L’attenzione rivolta da DuVernay all’ascolto, al dialogo e alla comprensione reciproca è l’aspetto forse più anti-narrativo di Origin. Spesso si è mossi dall’idea che un film funga per esposizione, per la dimostrazione di concetti e idee che partono come già costruiti. In Origin lo spettatore conosce queste idee insieme a Isabelle Wilkerson, guidato dalla sua voce e dalle sue domande.

Qui è possibile trovare Ava DuVernay nella sua forma più pura e cristallina con un cinema sempre improntato sull’esplorazione del sociale e delle ingiustizie come ha dimostrato in passato con Selma (2014) e When They See Us (2019), che con Origin trova una maggiore intimità, nonostante la sua natura fortemente epica, capace di abbracciare l’umanità in toto. Soprattutto il film è capace di prendere ogni emozione, positiva o negativa che sia, e trasformarla in un motore, in forza scatenante di scelte, dilemmi, percorsi. Il trauma non deve essere trattato come una forza distruttrice, ma come un avversario da combattere e da cui salvarsi anche grazie al prossimo.

Articoli simili