I vampiri non muoiono mai. Sono eterni, insaziabili e spregevoli. Come dei cacciatori si sfamano di umani e animali per sopravvivere, mentre vagano per la storia, cambiando nome e luogo. Sono eterni ma solo se si parla della lunghezza della loro vita: sono anche effimeri, sfuggenti e difficilmente la loro memoria permane. Sono tuttavia creature distanti dalla realtà, parte del folklore popolare e delle storie che da sempre ascoltiamo. Pablo Larraín, in El Conde, il suo ultimo film presentato all’80° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, sceglie di portare il vampirismo nella storia del suo paese, il Cile, reimmaginando il dittatore Augusto Pinochet (qui un incredibile Jaime Vadell, uno dei primi indubbi candidati alla Coppa Volpi) come un vampiro.

La sua natura sovrannaturale diventa l’ennesima occasione per Pinochet di fuggire dalla giustizia, fingendo la morte quando più gli conviene. In El Conde, la sua nascita viene ricollocata in Francia con il nome di Claude Pinoche, ma fin da subito la sua missione è chiara: annientare qualsiasi tentativo rivoluzionario contro i regimi. Quando arriva in Sud America, adotta il nome con cui poi passerà alla storia e, grazie a un colpo di stato nel 1973, arriva al potere, dove resterà fino alla fine 1990, ma solo dopo aver distrutto il Cile, reprimendo l’opposizione tra assassini ed esili. Dopo aver finto la sua morte per sfuggire alle numerose indagini sul suo conto, Pinochet si trova a fare i conti con cinque figli finiti in disgrazia che desiderano accedere al patrimonio paterno, una moglie insoddisfatta (Gloria Münchmeyer), un domestico con sete di potere (il collaboratore di sempre Alfredo Castro) e una suora esorcista (Paula Luchsinger).

El Conde usa i mostri della nostra immaginazione per raccontare i mostri della nostra storia. Attraverso il vampirismo, l’assenza di punizione per i crimini di Pinochet è, oltre che una maledizione eterna che tormenterà per sempre la memoria di un paese, anche la possibilità per il generale di continuare a vivere, mietendo vittime dovunque riesca ad andare. Il film sceglie un particolare bianco e nero, mai eccessivamente contrastato, che aumenta la teatralità della narrazione, allontanandola quanto possibile dalla realtà e rendendola così una farsa che ridicolizza non solo Pinochet, ma anche la Chiesa e tante altre figure.

Non è la prima volta che Pablo Larraín si interessa al portare gli effetti che la dittatura di Pinochet ha avuto sul Cile: Post Mortem (2010) era ambientato durante il colpo di stato del 1973, mentre No (2012) guardava alle campagne politiche nel corso del plebiscito dell’1988 che avrebbe deciso la fine della sua dittatura. Finora tuttavia Augusto Pinochet era rimasto un fantasma, menzionato, discusso e odiato, ma senza mai comparire in prima persona. El Conde conosce il rischio di rappresentare una figura simile sullo schermo e sceglie la strada del cinema di genere per privarlo di ogni possibile ambiguità e sottolineare la sua natura mostruosa nel modo più esplicito possibile.

El Conde è un cinema diverso a quello a cui Larraín ha abituato il pubblico, non per la sua rappresentazione del Cile, sempre puntuale e spietata onde necessario, ma più che altro perché si tratta del suo primo viaggio nel cinema di genere (nello specifico in un misto tra horror e fantasy, ma che resta anche nei terreni della commedia nera). Anche in queste nuove vesti, il regista si conferma una delle voci più sorprendenti e camaleontiche del cinema contemporaneo, trasformandosi e adattandosi ai contesti più variegati, senza mai perdere ferocia ed energia.

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