Tra i film presentati in concorso al XXI Festival del Cinema di Porretta troviamo anche Acqua e anice, opera prima di Corrado Ceron, che abbiamo intervistato. Dopo una partecipata proiezione ieri sera al Festival, animata dalle domande e dalle riflessione dei 60 ragazzi della Giuria Fuori dal Giro, il regista ci ha raccontato le fasi della sua formazione, il rapporto durante le riprese con attori del calibro di Stefania Sandrelli, Paolo Rossi e Silvia D’Amico e dei messaggi che spera che i ragazzi abbiano saputo cogliere guardando il suo primo lungometraggio.

Da alcuni anni il Festival del Cinema di Porretta, avvalendosi di diverse collaborazioni, cerca di abbinare un cortometraggio alla proiezione dei propri lunghi in concorso. Tu hai realizzato moltissimi cortometraggi.

Corrado Ceron: Ne ho fatti anche di più di quelli ufficialmente dichiarati. Io ho iniziato da giovanissimo, a otto anni, a girare con una Super8, con le bobine da due minuti. Non capivo perché durassero così poco e non avessero l’audio. Poi, per svilupparli, era necessario all’epoca mandarli in Svizzera. Insomma, ho iniziato con mia sorella, facendo horror casalinghi. Girare, fare cortometraggi, per me è sempre stato molto naturale. Durante l’incontro con il pubblico di ieri, mi chiedevano quale fosse stato il film che ha rappresentato per me una svolta e ho risposto Twin Peaks di David Linch, ma già da prima avevo il pallino della messa in scena cinematografica. Collaboravo con amici e parenti per realizzarli. Il primo corto professionale, con troupe, dove io e mio padre abbiamo anche investito economicamente, è stato quando avevo 29 anni.

FCP2022 Corrado Ceron Intervista
Il giovane cast di Il mio primo schiaffo, primo cortometraggio di Corrado Ceron

Si è trattato di un lavoro svolto all’interno di un contest organizzato da un progetto contro la violenza sulle donne, Action for Women, promosso da Michelle Hunziker e promosso dal Consiglio D’Europa e dalla Camera dei Deputati. Siamo arrivati primi su 600 corti provenienti da 21 paesi europei e abbiamo avuto la possibilità di vederlo proiettato all’interno del Festival di Venezia di quell’anno. Ho poi continuato a fare corti. Insieme a Federico Fava (sceneggiatore anche di Acqua e Anice) ho iniziato anche a scrivere. Anche per i corti sono sempre partito da un tema forte, come ho fatto con Acqua e Anice che parte dal suicidio assistito. Mi piaceva anche lavorare con i bambini. Infatti, i miei primi corti sono storie da adulti, ma raccontati attraverso gli occhi dei bambini, quasi fiabesche, ricercando storie di formazione. C’è sempre una sorta di tematica sociale o civile da cui mi piace trarre ispirazione. Sono molto legato ad uno dei miei corti più brevi, di tre minuti, girato in verticale, che si chiama Apnea, realizzato per il concorso di Nespresso. E anche lì ero partito da un’immagine, quella di una spiaggia in Turchia su cui era adagiata una coperta con una bambina morta sulla riva dopo un naufragio. Da lì mi sono sempre interrogato su come possa l’Arte, il Cinema, riportare sullo schermo argomenti così forti con il solo potere dell’immaginazione. Nel corto, ad esempio, il protagonista sveglia la bambina per poterle insegnare a nuotare, in modo da non dover più morire.

Cosa ti ha aiutato quando hai iniziato?

Trovo che siamo molto bello poter imparare a girare con dei paletti. Ad esempio, credo che i corti dovrebbero essere quasi a budget zero. Questo ti permette di mettere davvero in moto le idee. Il corto è il regno dell’indipendenza della regia, perché sei tu il tuo produttore e questo ti permette di sperimentare di più. Mi è servito moltissimo aver lavorato con i corti. Io ho imparato quasi da autodidatta e solo poi ho fatto una scuola di regia a Roma. Ma la tecnica l’ho imparata lavorando sui miei primi lavori. È grazie ai corti che ho fatto che ho avuto modo di conoscere persone che volevano fare il mio stesso lavoro, iniziare a costruire una troupe, lavorare con gli altri. La scuola che ho fatto, invece, mi è servita perché ho lavorato su venti corti, per i quali ho fatto un po’ di tutto – la regia, l’aiuto-regia, il montatore, la scenografia – e bene o male impari le varie mansioni. Anche per questo, preferisco definirmi filmmaker piuttosto che regista.

FCP2022 Corrado Ceron Intervista
Corrado Ceron (Ph. Maria de los Angeles Parrinello)

Quanto ti ha aiutato questa conoscenza dei vari comparti nella realizzazione del tuo primo lungo?

Tantissimo. Perché io so cosa chiedere alle varie maestranze. Se io conosco la fotografia, l’inquadratura, le lenti possibili, allora posso consigliare, indicare le soluzioni che vorrei concretizzare. Conosco bene anche il montaggio, perché credo che sia una riscrittura, che sia regia anche il montaggio. La regia, in fondo, è creativa fino a un certo punto, perché devi seguire obbligatoriamente alcuni limiti. Con il Montaggio puoi salvare scene, quasi riscriverle. Ed è utile anche sul set, perché permette al regista di avere il vantaggio della pre-visualizzazione, in modo da non disperdere energie nel girare scene che non ti servono. Se, ad esempio, io so già come poter montare la scena, le inquadrature che effettivamente mi serviranno o eventuali piani sequenza che voglio girare riesco a evitare di perdere tempo, che potrò utilizzare in un’altra scena. Io già da quando avevo 14 anni montavo, peraltro con Premiere, che è lo stesso programma di montaggio che ho usato anche per Acqua e Anice.

Ad aiutarmi sono stati anche gli anni che ho fatto come attore professionista di una compagnia teatrale di Vicenza e andare in giro con loro. Anche se poi i soldi che guadagnavo li investivo in telecamere da comprare. Comunque, questa esperienza mi ha portato a seguire un corso di regia teatrale. Ho cercato, insomma, di arrivare ad avere un’infarinatura completa. Poi, per il resto mi affido alle altre maestranze (costumi, trucco, parrucco) e delego a loro, occupandomi di tenere d’occhio la visione di insieme, fare in modo che tutto sia coerente. Credo che a quella riconoscibilità dello sguardo debba aspirare un regista.

Poi arrivi sul set del tuo primo lungo.

E scopri che la tecnica vale poco, che tutto quello che hai appreso passa in secondo piano rispetto a quello che senti, che vivi sul set. E io ho cercato davvero di esprimere non una reference cinematografica o un metodo appreso, ma quello che volevo io da quel film. Questo mi ha permesso di renderlo naturale, non costruito.

FCP2022 Corrado Ceron Intervista
(Ph. Matteo Girola)

E sei riuscito a farlo nonostante tu abbia avuto come attori protagonisti del tuo primo film attori importanti come Stefania Sandrelli, Silvia D’Amico e Paolo Rossi. Interpreti anche molto diversi tra loro. Come hai equilibrato questa loro diversità?

Ho avuto davvero molta fortuna. Si sono amalgamati loro tre, già dai primi giorni di set, in modo molto armonioso. Hanno provato proprio una chimica tra di loro. Una delle prime scene che abbiamo girato è stata quella del ballo sul pontile della casa di pescatori tra la Sandrelli e Rossi, in cui c’era anche la D’Amico. E lì sembrano amici da anni. Anche finite le riprese della giornata, ridevano, scherzavano insieme. Si è subito instaurato tra loro un rapporto. Soprattutto tra Stefania e Silvia, che poi sono diventate amiche anche nella vita.

Poi, la mia filosofia di set è quella di lasciare libertà agli attori. Quando Paolo Rossi ha visto il film per la prima volta durante una proiezione privata che avevamo organizzato per il cast, mi ha ringraziato proprio per la mia capacità di metterli a loro agio e instaurare un clima molto sereno, tranquillo e scherzoso. In effetti, noi sul set ci divertivamo proprio. E questa atmosfera di gioco riesce a trasparire nel film. Ovvio che a quel punto riesco a dirigerli meno o comunque non in modo rigido. Li ho lasciati essere.

Ieri hai presentato il tuo film alla Giuria del Festival del Cinema di Porretta, formata da 60 ragazzi tra i 16 e i 19 anni. Cosa speri che sia rimasto loro dopo aver visto Acqua e anice data la loro giovane età?

La curiosità. E mi sta stupendo come i giovani stiano reagendo alla visione del film ora che lo sto portando anche in giro per festival. Quando vedevo il target degli spettatori che lo vedevano in sala ho notato fosse tra i 50 anni in su. Mentre quando incontro i ragazzi che assistono ad una proiezione, quello che mi colpisce è proprio la loro curiosità. Perché secondo me, provandomi a mettermi nei panni di un adolescente di oggi, mi rendo conto che loro non conoscono il mondo che racconto nel film. Il mondo delle balere, del liscio. Non lo conoscevo nemmeno io, che comunque ho quarant’anni. E pe loro è quasi come vedere della fantascienza, qualcosa di talmente particolare, folkloristico, che li attira.

Poi, comunque, il film è anche un viaggio di formazione. C’è una ragazza che cresce e che inizia a vivere. LA parte di Maria (Silvia D’amico) può essere un modo per riuscire ad immedesimarsi da parte di un ragazzo. Acqua e anice è anche un film in cui il tema del fine vita è un pretesto. Il tema principale è la libertà, la possibilità di scegliere. Concetti talmente universali in cui tutti possono riconoscersi. A prescindere dall’età.

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