Al XXI Festival del Cinema di Porretta quella di oggi è stata la giornata dedicata al protagonista di una delle retrospettive organizzate quest’anno da Porretta Cinema: Emanuele Crialese.

In una sala del Cinema Kursaal gremita da 300 studenti del Polo Montessori e dell’Istituto CPA Montagna, Paolo Pellicano della Cineteca di Bologna ha moderato l’incontro con il regista, che è seguito alla proiezione per le scuole del suo ultimo film: L’Immensità. Non sono mancati i momenti di intima condivisione con i ragazzi di quello che è stato il personale percorso del regista, ma anche alcuni interessanti spunti di riflessione ed analisi sul particolare momento storico che i giovani stanno vivendo in questi anni complessi.

Abbiamo raccolto alcune delle domande più interessanti, arrivate dal moderatore scelto dal Festival come dai ragazzi

Film presentato all’ultima edizione del Festival di Venezia. Hai dichiarato che L’immensità è un film che insegui da sempre, che avresti sempre voluto fare e che, solo oggi, ti sei sentito di fare. Cosa è cambiato e come hai capito che fosse arrivato il momento giusto per farlo e come hai lavorato per far sì che questo film potesse nascere?

Emanuele Crialese: È come scrivere un diario per anni. Poi lo si rilegge e sembra mai non arrivare mai il momento in cui ti dici che puoi chiuderlo ed iniziarne un altro. Ogni giorno scopri cose del tuo passato, del tuo presente e ogni anno cambiano i modi in cui ti relazioni con te stesso, con le persone che ti stanno vicino. Diventa difficile parlare di qualcosa che comunque continua a vivere con te ed era difficile per me fossilizzare tutto questo su uno schermo.

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Parlando del personaggio di Adri, hai scelto Luana Giuliani, non un’attrice professionista, alla sua prima esperienza. Peraltro, non una persona che stesse seguendo un percorso simile a quello che intraprende la protagonista. Quale lavoro hai fatto con lei?

E.C: Il dilemma era quello di chiedere ad un’adolescente Tutti abbiamo vissuto quella fase, dai quattordici anni più o meno, in cui improvvisamente da bambini iniziamo a chiederci cosa diventeremo, cosa ci succederà. E iniziamo a interrogarci sulle cose che non capiamo, in cui le persone iniziano a guardarci in modo diverso. È un momento che abbiamo vissuto tutti. Per me era molto difficile scegliere tra le bambine che dovevo selezionare che, oltre a tutto questi sentimenti che abbiamo avuto tutti alla loro età, avesse anche il dilemma di chiedersi “ma io sono maschio o sono femmina?”. Ero preoccupato per la tutela psicologica della bambina stessa. Con Luana, che è una motociclista e competitiva, ha sempre sentito la volontà di battere i maschi. Quindi io le dicevo che doveva affrontare le riprese come se fosse una gara, che dovesse battere i maschi. Le dicevo che, nonostante sapesse bene di non essere un maschio, dovesse semplicemente fare finta di essere un maschio. Non ci siamo fermati a discutere o affrontare questioni sulla fluidità, l’identità di genere. Erano temi che non volevo affrontare con lei come se fossi una figura genitoriale. Io non mi sono voluto prendere questa responsabilità, anche perché non penso che debba essere un’altra figura – per quanto il mio lavoro e il film fossero importanti in quel momento – a discutere con una bambina certi temi. Quindi, ho scelto una persona dell’età giusta, competitiva, che semplicemente doveva comportarsi come se stesse andando a battere i maschi in moto.

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A fronte di una esordiente, abbiamo il personaggio della madre, Clara, interpretata da Penelope Cruz, che dà a questo film un’interpretazione straordinaria. Come sei arrivato a lei e come l’hai scelta?

E. C: Penelope è una figura femminile che potrebbe essere una madre, una nonna, una bisnonna, una figura in qualsiasi famiglia di ognuno di noi. Anche nel futuro, di tutte le epoche. È una sorta di archetipo femminile. Oltretutto, è anche molto simpatica. Oltre anche a poter avere il suo talento, sono stato molto fortunato, perché le ho mandato la sceneggiatura e, dopo tre settimane, mi ha chiesto di non far leggere la sceneggiatura a nessun’altra perché la voleva lei. Quando è arrivata ho capito che, anche fisicamente, lei era esattamente la figura femminile che io volevo.

Al netto della canzone di Dom Backy, come mai la scelta del titolo?

E.C: Era uno dei pensieri che avevo da quell’età come adesso. Con il tempo ho capito che non è dato sapere cosa sia l’immenso. E mentre un tempo non saperlo mi inquietava, oggi non sapere cosa ci sia nell’immenso mi rassicura. Perché mi dà una mia dimensione umana di essere finito. Penso che questo valga molto anche quando abbiamo a che fare con un bambino. Ho capito che, quando abbiamo a che fare con un bambino, dobbiamo considerare che lui abbia bisogno di essere rassicurato sul finito. Penso che non nel confine geografico ma in quello esistenziale ci sia una grande verità e sicurezza e cioè una riflessione sulla finitezza. Dobbiamo sapere come impreziosire ciò che sarà in questa vita, non nell’immensità. È un titolo che parla del contrario di quello che vuole essere il tema principale del film, una figura retorica. L’immensità come possibilità immaginifica ed evasiva.

Che tipo di trasformazione vede nella trasformazione dei ruoli genitoriali rispetto agli anni raccontati nel film?

E. C: Sicuramente, c’è un maggiore ascolto da parte di tutti alle istanze dei ragazzi, quindi c’è un miglioramento. Vedo, però una pericolosissima deriva riferita agli input. Io sono fiero ed orgoglioso di aver ricevuto tanti no, del fatto che non avevo sempre il supporto dei miei genitori, che dovevo prendermi le mie responsabilità. Ho imparato ad obbedire anche quando non ero d’accordo. Questo allenamento alla riflessione e all’obbedienza – anche quando ingiusta – è stata per me una grande palestra. In primis, perché mi ha insegnato ad interloquire con i miei superiori a modo mio. Inoltre, a muovermi nel mondo senza sentirmi sempre protetto da altri. Quindi, ad assumermi la responsabilità delle mie azioni e delle mie parole. Trovo che i ragazzi di oggi non abbiano sempre questa possibilità di combattere per loro stessi, di trovare il loro modo di interazione nel mondo. C’è troppa protezione. Mi sento in questo solidale con chi in questo momento deve svolgere la funzione di insegnante.

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