Il Cinema Ritrovato è iniziato alla grande anche quest’anno, aprendo il festival con Ladri di biciclette, che inaugurava anche la sezione dedicata a Suso Cecchi d’Amico. Ampio spazio è infatti dedicato in questa edizione al lavoro degli sceneggiatori e la prima proiezione è stata introdotta da un ospite d’eccezione: la figlia, Caterina d’Amico.
Ci sembra importante riportare le considerazioni emerse dal suo intervento poiché anche noi riteniamo doveroso porre l’attenzione su un lavoro che troppo spesso rischia di venire trascurato dall’analisi critica ma che lascia in realtà un segno profondo nell’opera cinematografica. D’Amico ha infatti preferito raccontare dettagli e vicende del processo creativo di scrittura del film più che addentrarsi in nuovi tentativi di analisi critica di questo capolavoro.
La nascita di un capolavoro
Ladri di biciclette è tratto dall’omonimo romanzo del 1946 scritto da Luigi Bartolini – un artista e poeta più che un romanziere – che narra la vera storia dei tre furti di biciclette che aveva subìto.
Cesare Zavattini lesse il libro: gli piacque così tanto che volle chiedere a Bartolini l’autorizzazione per trarne un soggetto cinematografico. Lo scrittore concesse i diritti con la clausola che se ne sarebbe potuto fare un adattamento anche molto libero. Zavattini coinvolse subito da un canto il sodale Vittorio De Sica (con cui lavorava già da tempo e che ormai produceva autonomamente i film che realizzava come regista poiché si dedicava a un tipo di cinema certamente non mainstream), dall’altro Sergio Amidei, collaboratore storico di Roberto Rossellini e considerato tra i fondatori del neorealismo. I due sceneggiatori cominciarono a lavorare insieme ma si resero conto di avere visioni troppo diverse: Amidei voleva dare un taglio molto politico, determinato e netto, meno libero rispetto a Zavattini. I dissapori tra i due crebbero al punto che il primo decise di abbandonare la lavorazione. Zavattini, che cercava comunque un partner forte nel lavoro di scrittura, si rivolse allora a Suso Cecchi d’Amico, che lo aveva già affiancato nella stesura di Roma città libera (Marcello Pagliero, 1946). La donna, per correttezza, informò Amidei della proposta di Zavattini chiedendogli se egli se ne dispiacesse ma il collega, convinto che il film “non valesse niente”, manifestò il proprio disinteresse.
Iniziò dunque per i tre sceneggiatori (ai quali si affiancarono Gerardo Guerrieri, Oreste Biancoli, Adolfo Franci e Gherardo Gherardi) un’avventura di ricerca: lo scopo di Zavattini era quello di usare la storia narrata nel romanzo di Bartolini come spunto per raccontare sia la volontà e il bisogno di trovare un modo per sopravvivere, sia come le piccole cose quotidiane, i piccoli avvenimenti diventano importanti nella vita di ciascuno di noi. Cominciarono a cercare luoghi, personaggi, situazioni, storie di vita da inserire nel film. Nessuno di loro aveva l’automobile: si muovevano in autobus, con un taxi affittato da De Sica, o a piedi. Ciò permetteva loro di esplorare le vie di Roma a stretto contatto con gli uomini e le donne che abitavano la città. Raccolsero così diversi spunti da accorpare nell’opera. Un elemento curioso emerge se consideriamo la provenienza geografica di questi sceneggiatori. De Sica era ciociaro; Zavattini era nato a Luzzara; Guerrieri (un drammaturgo, un teatrante, che ha scritto solo le sceneggiature di Sciuscià e di Ladri di biciclette) era di Matera; Biancoli e Gherardi erano del Bolognese; Franci di Firenze e d’Amico, anche se anagraficamente nata a Roma, era di fatto fiorentina. Nessuno era dunque propriamente romano, eppure – o forse proprio per questo – la Roma di questo film è una delle più squisite, delle più eccellenti e delle più precise che siano mai state raccontate sullo schermo.
Un successo inatteso
Il film venne girato nell’estate del 1948 ed uscì il 24 novembre dello stesso anno, la stessa sera in cui al teatro Eliseo si teneva la prima di Come vi piace per la regia di Luchino Visconti, una delle più sontuose messe in scena che si ricordino. È davvero paradossale che nello stesso momento, nella stessa città, si rappresentassero a teatro l’epopea della ricchezza e al cinema l’epopea della miseria, soprattutto considerando il fatto che Visconti aveva appena presentato a Venezia La terra trema che, proprio insieme a Ladri di biciclette, viene ormai considerato l’apice del neorealismo, della partecipazione dei protagonisti presi dalla strada, del cinema della realtà.
Il film ebbe un discreto successo: incassò circa 250 milioni di lire, cioè due terzi del guadagno del film di Mario Mattoli con Totò campione di incassi di quell’anno, Fifa e arena. A Bartolini l’esito cinematografico dell’adattamento non piacque per niente: considerandosi tradito, scrisse articoli di fuoco evidenziando tutte le differenze rispetto al romanzo (ad esempio: nella sua esperienza la vicenda finiva bene perché aveva ritrovato la bicicletta).
Caterina d’Amico sostiene che al suo posto si sarebbe piuttosto “appropriata” del film, avrebbe sottolineato quanto fosse stato importante l’apporto del libro, cercando di mettere in luce le somiglianze invece delle discrepanze. Bartolini rimase sempre fermo sulle sue posizioni. Chi cambiò idea invece fu Amidei, che ammise poi di essersi sbagliato.