Tutte le trame portano alla morte. Le storie che raccontiamo, i giochi dei bambini, la nostra stessa vita conduce alla morte. Ogni volta che ragioniamo, pensiamo, viviamo ci avviciniamo alla morte. La morte è un evento atteso, ogni uomo sa che la sua vita si concluderà così, eppure è un evento così misterioso e “finale” che è impossibile non averne paura. Jack (Adam Driver) e Babette (Greta Gerwig) sono terrorizzati dall’idea di morire e soprattutto dall’ordine delle loro morti. Immaginano i vuoti, i crateri incolmabili che la dipartita del consorte potrebbe lasciare, ma il loro gioco rimane su un piano puramente fantastico. La morte esiste, ma non è vicina. Loro sono benestanti, in un matrimonio felice dopo tre falliti e con quattro figli troppo curiosi e pessimisti a carico. Proprio per questo la morte è ostracizzata, chiusa nel televisore, che proietta immagini di disastri aerei e altri incidenti a qualsiasi ora del giorno. Un giorno però scappa dalla prigione catodica e arriva nella loro cittadina, costringendoli a fare i conti con gli spazi chiaroscurali del loro rapporto.
White Noise, presentato alla 79° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia come film d’apertura, è una creatura strana nella filmografia di Noah Baumbach, una narrazione epica rispetto ai suoi standard. Per tutta la sua carriera, da The Squid and The Whale passando per Frances Ha e arrivando a Marriage Story, si è concentrato su storie estremamente essenziali, lineari, dove l’unica cosa che succedeva costantemente e senza possibilità di frenarla era la quotidianità.
Con White Noise, decide di portare sullo schermo alcuni degli attori che lo hanno accompagnato negli anni come Adam Driver e Greta Gerwig, ma decide di intraprendere un’avventura nuova: per la prima volta, decide di adattare un romanzo e il prescelto è White Noise di Don DeLillo, uno dei pilastri della letteratura postmoderna americana, considerato dai più come impossibile da trasporre sul grande schermo. Come rendere a livello di immagini le lunghe pagine spese a descrivere le ansie della coppia? Come ricreare quell’atmosfera di ansia per farla sfociare nella speranza?
Nel romanzo a un certo punto Don DeLillo prova a immaginare la Terza Guerra Mondiale e la vede come qualcosa di bianco, perché ormai anche i colori verranno usati nello sforzo bellico. Baumbach capisce la bellezza e la forza di quei colori e usa il film come una caotica tavolozza, piena di sfumature diverse stratificate e contrastanti, ma che devono necessariamente convivere. Sarebbe impossibile ridurre White Noise a un unico tema: parla di vita, di amore, degli ostacoli che si incontrano necessariamente per strada, della paura della morte e di cosa possa significare accettarla.
Spiegato in questo modo, White Noise potrebbe sembrare una fiera di cliché, di storie che il pubblico ha già visto, letto o vissuto mille volte e di accenni all’immaginario americano più stereotipato. Baumbach, anche autore della sceneggiatura, riconosce questa natura famigliare della sua storia e la spinge all’estremo, abbracciando ogni cliché rischiando quasi di sfociare nella parodia di se stesso. Riconosce soprattutto che i cliché son tali perché veritieri, perché espressione di vita vissuta e vita sognata. Per questo insegue citazioni del cinema come sovrastruttura più che guardando a una singola opera, esagera e ingoffa i suoi attori per staccarli dal mondo a cui sono legati e farli diventare plastilina da modellare a piacimento.
White Noise, disponibile su Netflix dal 30 dicembre, è soprattutto un trattato sull’arte della speranza, sul perché è così necessaria e vitale per l’uomo e su come spesso significhi semplicemente accettare e smettere di negare le proprie paure. Con un finale prima favoleggiante e poi esplosivo, si prefissa come la prima grande sorpresa di questa edizione della Mostra d’arte cinematografica di Venezia.