Gli ultimi due anni hanno costretto molti di noi a chiuderci forzatamente dentro le nostre case. Forse anche in noi stessi. Rivalutando il concetto stesso di libertà. La pandemia ha anche accelerato il processo che ci ha portato a modificare – spesso radicalmente – il nostro modo di fruire della visione cinematografica e, in generale, la tipologia di Cinema che andiamo a vedere in sala. Sembra, quindi, che stia nascendo un nuovo tipo di spettatore. Per alcuni – a causa dell’incessante e sempre più frequente ricorrere alle piattaforme – si tratta di un pubblico più pigro e disattento. Per altri – ed è il nostro caso – siamo di fronte ad una sfida epocale per il mondo cinematografico, dettato dal fatto che, forse per la prima volta da anni, sia necessaria una concreta analisi dei gusti del pubblico prima di programmare un’uscita cinematografica. Che essa preveda il passaggio al grande (e ancora per molti magico) schermo della sala o che vada direttamente su piattaforma.

In questo contesto, uno spazio a parte sta riuscendo a ritagliarselo il Cinema indipendente. Spesso coraggioso, a volte sfrontato nel suo saper miscelare generi e registri narrativi e visivi. Quasi sempre capace, più di altri, di toccare profondamente la sensibilità del pubblico, andando a porre al centro tematiche di grande interesse per lo spettatore. Insomma, non chiamiamoli piccoli film. Perché si stanno rivelando portatori di una piccola rivoluzione nel mondo del cinema: quella di riuscire a urlare la propria voglia di libertà dai canoni finora imposti dalla cinematografia mainstream. Sicuramente, tra i titoli destinati da darci prova di questo nostro ragionamento c’è GiULIA. Una selvaggia voglia di libertà, presentato quest’estate in anteprima mondiale alle Giornate degli Autori (sezione Notti Veneziane, in collaborazione con Isola di Edipo) e che arriva giovedì 17 febbraio nelle sale, grazie alla distribuzione di Koch Media Italia.

Giulia (Rosa Palasciano) è una giovane donna che non è ancora riuscita a trovare un proprio spazio. Vive la sua vita in un turbine di precarietà: lavorativa, emotiva, esistenziale. Non a caso, il film inizia con un colloquio durante il quale – seppur la telecamera resti fissa sulla protagonista e lasci in offuscato secondo piano gli intervistatori – il regista Ciro De Caro sembra già volerci far intendere che nell’insensata follia di quelle domande stia la normalità di un’intera generazione. Nel suo percorso per rivendicare la sua selvaggia voglia di libertà, Giulia andrà in molti luoghi e incontrerà sul suo cammino molte persone. Scoprendo che nessuno spazio sia davvero adatto a lei e nessuna persona veramente capace di comprenderla pienamente. Arrivando a comprendere che il solo modo di sopravvivere senza negare se stessa sia quello di fare suo ogni luogo in cui andrà e di restare fedele al suo modo di vedersi sempre e di fronte a chiunque incontri.

Alle porte dell’imminente presentazione al pubblico che accorerà a vedere il suo film, abbiamo raggiunto Ciro De Caro per approfondire insieme a lui alcuni aspetti davvero particolari della sua terza volta dietro la macchina da presa.

Una selvaggia voglia di libertà. Questo il sottotitolo di GiULIA. È quella che ti ha spinto a pensare alla storia del film?

Esatto. Mi ha spinto una voglia di libertà a girare questo film perché l’ho potuto fare come volevo io, in maniera libera e senza dover dare retta a nessun tipo di regola né dal punto di vista della grammatica o ortodossia cinematografica né dal punto di vista produttivo. Abbiamo veramente quello che volevamo. Ed era quello che desideravo, perché avevo l’esigenza di fare di nuovo un film – come era successo con Spaghetti Story – libero da ogni tipo di condizionamento o regola.

Giulia è una donna speciale. Forte di tutte le sue stranezze. Determinata nel suo essere precaria (lavorativamente, ma anche emotivamente). Cosa ti ha spinto a voler raccontare un personaggio così particolare?

Avevo voglia di vedere al cinema un personaggio femminile che non si vede molto spesso, soprattutto nel cinema italiano. Volevo un personaggio che fosse scostante e fastidioso, ma allo stesso tempo sexy e che viene la voglia di proteggere e coccolare. Con Rosa (Palasciano, NdR) ci siamo sempre detti di volerci prendere il rischio di raccontare una donna così. Poi, sinceramente, la mia voglia (forse presunzione) era anche quella di mostrare a tutti che esista un’attrice come Rosa Palasciano e che il cinema italiano ignori spesso gli attori emergenti, perché si preferisce – in modo anche un po’ provinciale – andare per moda, finendo a fare film sempre con gli stessi attori.

Hai scritto il film insieme a Rosa Palasciano. Che è anche la protagonista di GiULIA. Come è nata questa collaborazione e quanto ha influito sulla costruzione della vostra protagonista?

La collaborazione con Rosa è nata durante le riprese per un cortometraggio che abbiamo fatto assieme. Appena l’ho conosciuta sono rimasto affascinato da lei come attrice. Ne abbiamo poco dopo fatto un altro e un altro ancora – che però non è stato montato – e, nel frattempo, ci siamo resi conto che stavamo iniziando ad esplorare insieme qualcosa. Che, senza rendercene conto, stavamo scavando nell’animo di un personaggio, che piano piano stavamo costruendo. Alla fine, ci siamo accorti che questo personaggio stesse venendo fuori e non bastassero dei cortometraggi, ma dovessimo regalargli un film. Perché se lo meritava. Abbiamo rivisto insieme praticamente tutti i film di Rohmer, altri con personaggi femminili centrali. Molti li conoscevamo chiaramente già, ma di tutti ci siamo innamorati di nuovo. E volevamo mettere in scena il nostro a tutti i costi e lo abbiamo scritto assieme. Io sono davvero felice di questo personaggio e, soprattutto, sono grato a Rosa di averlo voluto scrivere con me e di averlo fatto vivere in un modo bellissimo.

Torniamo al tema della libertà, così centrale nel tuo film. Che non è schiavo di nessun codice di genere. Abbiamo la commedia, il dramma, la sperimentazione. È come se chiedessi allo spettatore stesso di liberarsi di tutte proprie maschere e scegliere quale personaggio seguire nella vicenda. Quanto le possibili reazioni del pubblico hanno influito sulla costruzione del film?

Sinceramente, non ho mai pensato alle reazioni del pubblico, a come avrebbe preso un film che non si può definire, anzi, che io stesso faccio fatica a definire o spiegare. Non mi sono mai posto questo problema. Ho piuttosto sempre pensato che se avessi fatto una cosa che fosse piaciuta a me sarebbe potuta piacere anche ad un po’ di persone. Non a tutte, ovviamente, non ho la pretesa di piacere a tutti. Ma penso che molti possano identificarsi in questa storia, in questi personaggi. Non mi sono posto limitazioni in questo senso né ho voluto apportare particolari strategie. GiULIA è un film veramente libero, sincero. L’unica spinta è stata l’urgenza di voler raccontare questa storia.

La Roma che vediamo e racconti in GiULIA è altrettanto libera. Una città senza vincoli, che va dai palazzi di periferia al mare, senza seguire un filo logico, ma con continuità di intenti. Una Roma underground, poco conosciuta. Che, forse, nemmeno aspira a essere scoperta. Come è la tua Roma?

Roma ha un posto particolare in questo film. Da un lato, ho voluto raccontare una Roma che tutti vedessero; dall’altro no, perché ne sono un po’ geloso, che è la Roma che si vede soprattutto d’estate. Che ha una luce, una fauna – diciamo così – e delle abitudini che pochi vedono, perché la maggior parte delle persone va via. Roma – anche se meno rispetto a prima – davvero si svuota durante l’estate. E molti non sanno cosa si perdono. Ho voluto raccontare quella che per me è Roma. Ci tenevo a raccontare una Roma che io ho nel cuore, fatta di persone un po’ inafferrabili, outsider, anche underground. Sicuramente quella di cui io sono innamorato.

Attorno a Giulia girano personaggi simili a lei nella loro precarietà. Ma tutti estremamente particolari. Vuoi parlarci di come e perché li hai scelti?

Mentre scrivevo, avevo in mente che certi personaggi gli avrebbero interpretati alcuni attori ed alcune persone che conosco. Perché ho bisogno di rifarmi veramente alla realtà per raccontare qualcosa che per me è davvero importante e che, appunto, deve essere vero. Non deve essere una finzione o una versione abbellita, cinematografica di quello che vedo. Per me, si deve vedere davvero l’odore, la puzza; si deve rimanere toccati, sporchi, da quello che racconto, dalla storia che poi diventa il film. Io sono innamorato di certi personaggi e quindi ho voglia di mostrarli nella loro purezza, nella loro genuinità, senza giudicarli. Un po’, ho anche il bisogno di raccontare ciò che vedo attorno a me o che succede proprio a me o ai miei amici, perché credo che ci siano personaggi che hanno la dignità di essere rappresentati al cinema così come sono. Non in una versione abbellita e cinematografica della realtà. Non i precari che hanno la casa bella e la macchina pulita. Ma persone, case, situazioni vere. Per me scrivere alcuni personaggi non può non avere la conseguenza diretta di farli interpretare a persone che io ho già in mente. Che sono o bravissimi attori che so che ce l’hanno nelle corde e che possono dare loro una vita reale o, come nel caso di Ciavoni o del critico cinematografico, prendere proprio loro e metterli in scena.

Sin dalla preparazione dell’anteprima alle Giornate degli Autori, tu e tutto lo staff del film lo avete accompagnato con una forte presenza sui social. Quale il tuo rapporto con i media?

Il mio rapporto con i media e con i social è di amore e odio. Vorrei farne sinceramente a meno, perché sono anche un po’ paranoico, tengo molto alla mia privacy, se vado da qualche posto lo pubblico magari dieci giorni dopo che ci sono stato. Però so che siano fondamentali al giorno d’oggi, soprattutto per la promozione di eventi culturali come può essere un film. Non mi risparmio, perché è una cosa che va fatta per il bene del film e non si può essere snob o schizzinosi. Ma credo che i social esasperino troppo l’apparenza più che la sostanza e che si arrivi a confondere la vita reale da quella sui social. Sembra che se non pubblichiamo qualcosa sui social quella cosa non esista, noi stessi non esistiamo. Quando invece non è così. Mi piacerebbe viverli con più equilibrio, non so se ce la faccio.

Nel film c’è un momento (che non vogliamo anticipare troppo) di forte attacco ad un certo tipo di giornalismo cinematografico. Quale il tuo rapporto con la critica?

Sono particolarmente contento di questa domanda, perché così posso finalmente dire che il mio non sia né un attacco né una critica. Anzi, io condivido al 99% quello che dice il critico cinematografico nel film. Quel pezzo nasce da un vero messaggio vocale, di 15 minuti, che lui mi ha mandato e che assieme abbiamo riscritto. Perché, appena l’ho ascoltato, mi sono detto che non sapevo che tipo di film avrei fatto che qualunque fosse stato lo avrei voluto mettere nel mio film. E contate che mi era stato mandato forse un anno prima che iniziassi a lavorarci. A quel punto, gli dissi che ovviamente lo avrebbe dovuto interpretare lui. E questo è uno dei sassolini dalla scarpa che mi sono tolto con questo film. In generale, io ho un ottimo rapporto con la critica. Anche con quelli che hanno scritto recensioni non belle dei miei film. Ci vado davvero d’accordo, ci vado anche al cinema. Poi, io frequento molto i festival e, quindi, con tanti ci incontriamo spesso. Credo veramente che siamo una comunità. Con molti critici e giornalisti cinematografici, con altri cinefili, con altri colleghi formiamo una comunità e siamo amici. Non vedo una divisione, facciamo tutti qualcosa per amore del Cinema. Ci possono essere visioni diverse, come è giusto che sia. Ma ho un ottimo rapporto con chi scrive di Cinema, con chi ne scrive bene, ma anche con chi ne ha scritto male. Vado spesso a cena fuori con persone a cui non è piaciuto il mio secondo film o ha avuto delle riserve sul primo o non ne ha scritto bene. Però apprezzo la loro sincerità, così so che quando ne scrivono bene non lo fanno solo perché siamo amici.

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