Nel luglio del 2017, sulle pagine del New York Post, comparve un brevissimo articolo di Rebecca Rosenberg intitolato “Wannabe socialite busted for skipping out on pricey hotel bills”. Era una notizia di poco conto o almeno era tale per Manhattan: una giovane “aspirante ereditiera” di nome Anna Sorkin, con lo pseudonimo di Anna Delvey, aveva evitato di pagare un conto di migliaia di dollari in un hotel, ma l’avvocato rassicurava il giornale che quei debiti sarebbero stati risanati presto.

La giornalista Jessica Pressler cercava una possibilità di riscatto. Qualche anno prima aveva scritto un reportage su uno studente che aveva dichiarato di essere stato capace di guadagnare oltre settanta milioni di dollari in borsa, storia che si era rivelata poi falsa, facendole perdere un’importante opportunità di lavoro. Ormai prossima alla nascita della figlia, capì che le rimaneva poco tempo per dedicare tutta se stessa a una storia e quando lesse l’articolo del New York Post, intravide in esso una storia più grande di quella lasciata trasparire da Rosenberg.

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Nel maggio del 2018 uscì su New York MagazineMaybe She Had So Much Money She Just Lost Track of It” e da aspirante ereditiera Anna Delvey diventò il fenomeno sulla bocca di tutti. Il reportage di Jessica Pressler era una montagna russa tra i mille inganni della donna, un racconto di come era stata capace di costruirsi un posto nella scena newyorkese attraverso bugie, prestiti e la sua convincente parlantina. Le testimonianze delle vittime o degli innocenti testimoni della sua continua manipolazione impreziosivano la storia. Ad affascinare era il mistero, la sospensione dell’incredulità che era richiesta al lettore: si sapevano parti di Anna Delvey, ma non l’intera storia e quegli spazi grigi incuriosivano e aggiungevano un altro strato al suo personaggio, ormai sospeso tra finzione e realtà.

L’interesse generato dalla storia portò una dei più importanti player dell’intrattenimento, la sceneggiatrice e produttrice televisiva Shonda Rhimes, a comprare i diritti dell’articolo per farne una serie. Sulla carta non potevano finire in mani migliori, essendo l’autrice nota per il suo stile melodrammatico ma anche sagace e sofisticato. Il problema è che la miniserie risultante, Inventing Anna, disponibile da oggi su Netflix, non capisce le vere ragioni del successo del caso Delvey, cadendo in un turbine frustante e soffocante che finisce per banalizzare anche una delle più incredibili truffatrici del ventunesimo secolo.

Inventing Anna sceglie di adottare come punto di vista e come pretesto narrativo la stessa Jessica Pressler, che nella finzione della serie diventa Vivian Kent (Anna Chlumsky). Trasformarla in un personaggio permette di drammatizzare il rapporto tra la giornalista e la stessa Delvey (Julia Garner), trasformandole in una versione estremamente glamour e sanitizzata di Clarice e Hannibal, ma anche di allontanarsi dall’articolo stesso.

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Ogni episodio, difatti, è aperto da un cartello che segnala come la storia raccontata sia completamente vera “se non per le parti completamente inventate”. Inventing Anna, difatti, soprattutto negli ultimi episodi, prova ad immaginarsi aspetti della vita di Anna che trascendono dalla storia scritta da Pressler e che forse era meglio lasciare inesplorati. L’indagine di Vivian, la sua ricerca della verità, dovrebbe essere il motore della narrazione, ma guardando Inventing Anna è facile pensare che qualsiasi altro personaggio avrebbe offerto un punto di vista più interessante e sensato sulla vicenda come la personal trainer Kacy (Laverne Cox) o l’avvocato Todd (Arian Moayed).

La serie non sa come avvicinarsi ad Anna Delvey, già dal primo episodio i personaggi che la circondano si dividono tra chi la definisce l’incarnazione del male che affligge l’America e chi una novella Robin Hood. Se nell’articolo le aree grigie, gli aspetti più misteriosi della truffatrice erano quelli che avevano catturato l’attenzione del pubblico, Inventing Anna prova un approccio opposto e controproducente: prova ad umanizzarla nel modo più banale possibile. In questo spossante tentativo di decifrarla, come se fosse necessario per rendere la sua storia più accessibile, la serie spoglia Anna Delvey di tutto il suo fascino. A reggere il personaggio resta Julia Garner, già vincitrice di due Emmy per il suo lavoro in Ozark, che con un accento bizzarro prova a incantare e distrarre lo spettatore.

Inventing Anna prova a rendere una saga di menzogne, potere, trappole e denaro una favola con lezioni morali saccarine del calibro di “tutti indossano una maschera”, “al giorno d’oggi tutti usano tutti” e tanto altro. La serie brilla solo in momenti rarissimi, nei quali riesce a mettere in disparte il buonismo e a concentrarsi su semplici botta e risposta tra i personaggi, che ricordano le migliori stagioni di Scandal (serie sempre proveniente da Shondaland). Inventing Anna soffre anche di un evidente problema strutturale: è difatti divisa in 9 episodiil più corto di 58 minuti e l’ultimo si aggira intorno all’ora e mezza. La narrazione, purtroppo, non trova mai il ritmo giusto per far apparire quella durata come qualcosa di effettivamente necessario e utile ai fine della storia.

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