Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla. Così recita una delle frasi più conosciute del filosofo cinese Lao Tzu. Per Yang (Justin H. Lin), un androide (o meglio un “techno-sapien”) culturale creato da Brothers & Sisters, rappresenta una nozione, più che un pensiero. È stato programmato per insegnare quelli che scherzosamente vengono definiti “Chinese Fun Facts”, delle piccole curiosità che possano aiutare i bambini cinesi adottati da famiglie di altri paesi a mantenere un legame, per quanto flebile, con la loro madrepatria. Per Yang, quella frase è la risposta a uno degli interrogativi più complessi per l’uomo: “Cosa c’è dopo la morte?”. Per lui non è necessario che ci sia un aldilà definito, come il mondo occidentale è solito teorizzare, perché è proprio quel nulla che segue la morte a rendere possibile la vita.

Quando Yang si spegne improvvisamente, la famiglia che lo ospita rimane pietrificata. Quell’androide era diventato una certezza nella loro quotidianità, un prezioso aiuto per due genitori molto impegnati e un fratello per la piccola Mika (Malea Emma Tjandrawidjaja). Il padre, Jake (Colin Farrell), sembra quasi infastidito, sa che l’assistenza tecnica di Brothers & Sisters, l’azienda che lo ha costruito, è praticamente inesistente e che un eventuale sostituto sarebbe un investimento impossibile per la famiglia in quel momento. L’insistenza della bambina e lo sconforto della moglie Kyra (Jodie Turner-Smith) lo convincono a cercare aiuto, tra meccanici dalle intenzioni ambigue e un museo specializzato in intelligenza virtuale.

Ispirato dal racconto Saying Goodbye to Yang contenuto nella raccolta Children of the New World di Alexander Weinstein, After Yang, il secondo film del regista e video-saggista Kogonada, arriva al Sundance dopo la première al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard come vincitore del premio Alfred P. Sloan dedicato ai titoli che hanno saputo guardare alla tecnologia nel modo più originale. Sarebbe forse fuorviante ascrivere alla fantascienza il futuro immaginato da Weinstein e ampliato da Kogonada, soprattutto se ci si attiene alla definizione che ha assunto questo genere negli ultimi anni. After Yang preferisce infatti, rispetto allo spettacolo di effetti visivi e sonori, un approccio estremamente minimalista.

Nel mondo in cui si muovono Jake, Kyra, Mika e Yang natura e tecnologia son intrinsecamente legate e al tempo stesso ormai indistinguibili.  Basti pensare a come fino al malfunzionamento Yang sembra umano come il resto della sua famiglia e le macchine autocomandate su cui ci si muove sono ricoperte di piante. L’unico a mostrare degli elementi di resistenza al cambiamento sembra essere Jake, proprietario di un piccolo negozio di tè che continua a cercare in modo quasi ossessivo la combinazione perfetta di fragranze e sapori e rifiuta i cristalli di tè entrati in commercio. In una scena arriva a domandarsi se Yang avesse mai voluto essere un umano, come se il suo essere robot gli togliesse umanità.

La famiglia tuttavia lo tratta sempre come un umano e la sua morte e la successiva odissea vissuta dal suo corpo in ricerca di una riparazione viene onorata come quella di un familiare. Kogonada con After Yang non vuole parlare solo del lutto e delle diverse vie che l’uomo può seguire per elaborarlo, ma anche e soprattutto della traccia che ciascuno lascia sulla terra, dei modi in cui i ricordi possono portare conforto e tristezza nelle persone rimaste in vita. Lo fa con delicatezza, sfruttando l’archivio interno a Yang più volte durante il film e lasciando che l’indagine di Jake aiuti i personaggi a capire l’impatto che il techno-sapien ha avuto su di loro. Se Colin Farrell dona a Jake il suo viso imperscrutabile e malinconico al tempo stesso e la Kyra di Jodie Turner-Smith è piena di una dolce fierezza, il vero cuore del film è Malea Emma Tjandrawidjaja, che come Yang, pure nella tristezza e nella morte, riesce a trovare un nuovo inizio.

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