La terza stagione di The Bear, arrivata su Disney+ alla vigilia di Ferragosto, ha un problema forse unico nel panorama televisivo odierno: l’ossessione col suo personaggio protagonista, l’ansioso e ambizioso cuoco Carmy Berzatto (Jeremy Allen White). In una storia non dovrebbe essere strano o addirittura controproducente incentrarsi sul proprio protagonista, che dopotutto rappresenta il motore della narrazione, ma nel caso specifico di The Bear assomiglia a un’ancora. 

Un’ancora permette sì che un’imbarcazione rimanga al sicuro evitando di finire il balia delle pericolose onde, ma il suo principale fine è appunto quello di fermarsi, impedire di proseguire sulla rotta stabilità. In questa terza stagione Carmy è immobile, bloccato in un’eterna e ripetitiva operazione a metà tra la ruminazione e l’autoflagellazione. 

Domani, l’episodio di apertura, è un collage frammentato in bilico tra flashback e flashforward (includendo anche frammenti dal resto della stagione), che catapulta lo spettatore nei molteplici traumi che tormentano lo chef: i raptus della madre Donna (Jamie Lee Curtis), i soprusi del suo mentore David (Joel McHale), la morte del fratello Mikey (Jon Bernthal) e il rapporto altalenante con la ex Claire (Molly Gordon). 

the bear 3 recensione

Sono tutti aspetti che la serie ha già approfondito molteplici volte, spesso dedicandovi interi episodi, e in modi molto più efficaci, che qui si trovano in un garbuglio di preparazioni culinarie ai limiti del food porn accompagnate dalla ripetitiva (non di natura, ma semplicemente perché ripetuta minimo trenta volte) Together dei Nine Inch Nails.

Se il primo episodio è una giravolta su se stessi nella mente di Carmy, il resto della stagione segue più o meno lo stesso trend, seppur adottando un punto di vista esteriorizzato. L’unico modo per cementificare il successo del ristorante The Bear è per lo chef quello di ottenere l’agognata stella Michelin. 

Come raggiungere l’obiettivo? Attraverso una lista di non-negotiables, una serie di dictat a tutti i dipendenti devono sottostare per alzare l’asticella. Tra questi troviamo l’attenzione per l’igiene personale, stirare le proprie magliette, la non-ripetizione degli ingredienti e un quotidiano ricambio del menù proposto al pubblico. 

the bear 3 recensione

Queste nuove regole fanno scivolare presto la cucina in un nuovo livello di ansiogena confusione. Ritchie (Ebon Moss-Bachrach) dal suo nuovo ruolo di maître esprime presto e con poca gentilezza i suoi dubbi sulle nuove pratiche, mentre Sydney (Ayo Edebiri), in questa stagione relegata a un inspiegabile ruolo terziario, prova come suo solito a fungere da ago della bilancia, da precario equilibrio tra le teste calde che la circondano. 

Per essere una serie nata sotto l’inno di “Every Second Counts” come annuncia una piccola insegna sotto l’orologio della cucina, la terza stagione di The Bear dilata i tempi, limitando la frenesia alle interazioni interne alla cucina, specialmente tra Ritchie e Carmy. Il creatore e showrunner Christopher Storer preferisce con questa stagione costruire un omaggio alla scena culinaria contemporanea, in modo similare a Frederick Wiseman con il suo Menus plaisirs – Les Troisgros. Nell’ultimo episodio, Per Sempre, ha il pretesto perfetto per riunire tutta una serie di chef famosi per i più appassionanti di quel mondo, ma lascia in disparte i protagonisti della serie rendendoli orecchie più che soggetti parlanti. 

Due episodi (su dieci, quindi un numero esiguo) ci ricordano tuttavia la bellezza di The Bear, che nasce proprio dal saper bilanciare la frenesia con la lentezza, dando respiro ai suoi personaggi nei momenti più necessari. Tovaglioli è sì l’ennesima manifestazione dei fantasmi del passato in questa stagione, ma attraverso la storia di Tina (Liza Colón-Zayas), membro fondamentale dello staff di The Bear ma finora rimasta in disparte, trovano una necessaria e rinnovata dolcezza. In Cubetti di ghiaccio, incentrato invece su Sugar (Abby Elliott), la serie offre una potente antitesi rispetto al circolo vizioso di paranoia e autoflagellazione portato avanti da Carmy a causa del suo passato, mostrando come invece la donna possa riuscire a portare un modello di famiglia sorprendentemente funzionale nell’universo della serie.

the bear 3 recensione

Se da un lato questa stagione di The Bear sembra voler assomigliare a un documentario culinario, dall’altro vuole provare a rispondere in modo diretto alle critiche di chi metteva in discussione la sua partecipazione alle categorie Comedy a tutti i grandi premi della serialità americana. Lo fa dando ancora più importanza ai Fak, che in principio erano il meccanico/cameriere Neil (Matthy Matheson) e il factotum Ted (Ricky Staffieri) e ora sembrano moltiplicarsi di episodio in episodio. È un’importanza superficiale dettata solo da fastidiose gag fini a se stesse, che rallentano solo i ritmi della serie.

La terza stagione di The Bear è la dimostrazione lapalissiana di alcune debolezze che hanno sempre minacciato la serie e che ora emergono molto più forti che in passato. Non si tratta però, come hanno fatto molte testate americane, della prova del fatto che abbiamo sempre sopravvalutato The Bear: un passo falso non deve essere vissuto come un testamento per la serie ma come l’opportunità per trovarvi una nuova e rinnovata dimensione. La serie ha ancora possibilità di rimettersi in carreggiata e se prosegue i ritmi produttivi del passato, già l’anno prossimo potremmo averne la prova.

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