Per essere un film sull’amore per l’arte cinematografica, Finalmente l’alba, il nuovo film di Saverio Costanzo, porta spesso il pubblico a chiedersi se quell’amore abbia davvero ragione di esistere. Arriva nelle sale in una versione più esile rispetto a quella proiettata alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove il film è stato presentato in concorso. Si spera che un taglio di 32 minuti possa rendere frustrante la visione di un collage citazionistico che si chiude con una delle scene più inaspettatamente esilaranti degli ultimi anni. 

Tutto in Finalmente l’alba è finto: anche il mondo che circonda Cinecittà assomiglia a un set cinematografico e ogni attore punta a un’esagerazione enfatica, quasi parodica. L’idea di accostare volti celebri dello star system hollywoodiano attuale a personaggi evidentemente ispirati a divi del passato non funziona nemmeno come provocazione. Spesso sui social si è soliti usare l’espressione “iPhone face” per descrivere persone con volti talmente aderenti ai modelli di bellezza attuali da non essere adatti a film storici. Questo è il caso soprattutto di Rachel Sennott, nata come star del web e poi esplosa come attrice grazie a Shiva Baby di Emma Seligman, che interpreta Nan Roth, la “rappresentante” di una nuova scuola di recitazione più naturalistica che minaccia il mondo dei kolossal in Finalmente l’alba. Sennott tuttavia sembra proporre un’altra versione di se stessa più che un ruolo vero e proprio. Sul resto del cast torneremo tra poco.

Occorre fare un passo indietro. Finalmente l’alba o come sarebbe preferibile chiamarlo alla fine Finalmente i titoli di coda usa come spunto di partenza un fatto di cronaca nera che sconvolse Cinecittà per il coinvolgimento di diversi personaggi di spicco nelle indagini: l’11 aprile 1952, sulla spiaggia di Torvaianica, venne ritrovato il corpo della ventunenne romana Wilma Montesi, che aveva partecipato ad alcuni film come comparsa o in piccoli ruoli. È una notizia ripetuta dai telegiornali o en passant da qualche personaggio e vive nella mente di Mimosa (Rebecca Antonaci) come un avvertimento, un invito a non idealizzare il mondo che ammira nei film che vede con la sorella Iris (Sofia Panizzi) e la madre Elvira (Carmen Pommella). Quando tuttavia una serie di circostanze fortunate la portano ad ottenere un ruolo nel kolossal in costume sulla prima sovrana egizia, lei si trova oggetto dell’interesse di tutto il cast. Josephine Esperanto (Lily James), una star ormai destinata a spegnersi, vuole Mimosa nella sua orbita, come se la sua freschezza fosse fonte di conforto. Anche l’attore rubacuori Sean Lockwood (Joe Keery) vuole ottenere le sue attenzioni. Così Mimosa si ritrova a passare una notte da stella, interpretando il ruolo affidatole da Josephine e prova a ignorarne le conseguenze fin quando non è più possibile farlo.

Nelle note di regia che hanno accompagnato l’arrivo del film a Venezia, Saverio Costanzo descrive Mimosa come “un foglio bianco, su cui ognuno dei personaggi in cui s’imbatte scrive la sua storia, senza paura di essere giudicato”. L’idea funzionerebbe se i personaggi che ruotano attorno alla ragazza protagonista non fossero meri bozzetti, privi di una personalità al di fuori del loro essere attori. Potrebbe fungere da critica verso le logiche superficiali e frivole del mondo cinematografico se solo tutto il film non lavorasse così tanto per eccessi caricaturali. Mimosa, la cui interprete è uno dei pochi elementi salvabili del film, è un punto d’ingresso giusto nei fasti di quel periodo, ma se il film vuole essere “sul riscatto dei semplici” come dichiarato da Costanzo, il finale appare come una presa in giro per il suo personaggio, oltre ad essere l’ennesimo ritorno a quella estrema finzione che mina Finalmente l’alba.

Il cast principale del film è, ad eccezione di Rebecca Antonaci, del tutto anglofono, ma gli accenti impostati (Lily James nelle scene del kolossal docet) dicono tutt’altro. La lingua inglese è usata come mezzo per confondere ulteriormente Mimosa che non la sa parlare e il suo unico tramite è Rufus (Willem Dafoe), un cordiale autista e mercante d’arte, che si offre spesso di tradurre le conversazioni attorno a lei. In un film di scelte recitative inspiegabili, è impossibile non chiedersi se le scelte di casting non siano state dettate solamente dai volti degli interpreti. Lily James, solitamente una presenza frizzante e spontanea, qui viene affossata in un ruolo per cui non possiede la giusta maturità. Lo stesso vale per Joe Keery (Steve Harrington di Stranger Things per intenderci), che nonostante possa essere inteso un “rubacuori” per gli standard moderni, qui risulta avere lo stesso charme di un personaggio de La casa di Topolino.

Anche con un altro cast, con un’altra scrittura e con un altro finale (quindi un buon 85% di cambiamenti), Finalmente l’alba rimarrebbe comunque la fiera del citazionismo, un tentativo di imitare Fellini senza immaginarne un’effettiva reinvenzione, un omaggio a un’epoca d’oro troppo affezionato all’idea moderna di cinema per poterla analizzare con lucidità.

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