Prometeo, protagonista di alcuni dei miti più celebri della mitologia greca, è l’immagine della ribellione: lui riuscì a rubare il fuoco degli Dei per poterlo dare al genere umano, ponendosi in conflitto con Zeus. Alla sua scelta però conseguì un’aspra punizione, che segnò una maledizione sia per Prometeo che per gli umani. Quando gli autori e storici Kai Bird e Martin J. Sherwin scrisserò una biografia dedicata a l’inventore della bomba atomica, J. Robert Oppenheimer, nel 2005, indecisi sul titolo, finirono per ascoltare il suggerimento della moglie di Bird che suggerì “American Prometheus”, spiegando che il fuoco del mito originale era in questo contesto la bomba. Creare questo paragone significa inquadrare Oppenheimer come un eroe, che ha ridato all’umanità qualcosa che le spettava di diritto e che ha ricevuto una punizione per il suo spirito di intraprendenza.

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Sebbene il libro costituisca la principale fonte di Oppenheimer, l’omonimo biopic di Christopher Nolan sul celebre fisico, l’approccio da lui scelto è diverso: nel mondo filmico Oppenheimer non è un eroe in nessun senso del termine. La sua invenzione ha permesso di portare la Seconda Guerra Mondiale a una veloce e brutale fine, ma Nolan è più interessato al conflitto morale di Oppenheimer e al duplice trattamento ricevuto dal mondo esterno tra processi e crocefissione mediatica. Non sarebbe nemmeno corretto definire Oppenheimer un normale biopic, soprattutto se si fa riferimento a quello che è diventato il genere negli ultimi anni. Il film di Nolan non parla solo della vita di un uomo, ma più dell’umanità in sé e della sua responsabilità collettiva. Più che essere Prometeo, Oppenheimer è qui un novello Dottor Frankenstein, un uomo accecato dalle possibilità della sua mente che non capisce quanto distruttiva sia la sua invenzione fino al momento in cui questa scappa dalle sue mani.

Cillian Murphy, dopo numerose partecipazioni a film di Nolan in ruoli secondari, diventa qui il protagonista assoluto. Con i suoi occhi algidi e infossati e il corpo esile in vestiti sproporzionati, la sua fisicità aiuta a portare sullo schermo l’impossibilità di Oppenheimer: i militari che lo circondano sembrano fissi sul terreno, robusti, inamovibili, mentre il fisico appare come un fuscello, destinato a essere spazzato via dal vento. Gli occhi vitrei portano con sé tutti i dubbi che hanno accompagnato la scoperta, ma anche la sottrazione di Oppenheimer dalla sua stessa persona, specialmente durante il processo che occupa la terza ora del film.

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Accanto a Cillian Murphy, Nolan assembla un cast di attori stoici, capaci di tenergli testa anche in parti molto brevi. Basti pensare a Alden Ehrenreich, che ruba la scena anche in presenza di leggende del grande schermo. Sarebbe tuttavia impossibile parlare di Oppenheimer senza citare la sua principale controparte, ovvero Lewis Strauss (Robert Downey Jr.) che nel film diventano l’equivalente di Mozart e Salieri. È un rapporto subdolo, di mutuo aiuto e sabotaggio, una partita a scacchi condotta in modo puntuale e letale da entrambe le parti. In Oppenheimer anche una semplice conversazione assomiglia alla creazione di una bomba atomica: ogni azione, ogni scelta è pervasa da un senso di urgenza, da un senso di finalità. La bomba atomica non è il fine ultimo, ma un fil rouge, un device narrativo che dona una struttura a ogni scena.

Il film ha per natura una linearità che difficilmente si è vista da parte di Christopher Nolan, ma il regista cerca comunque di prendersi alcune libertà, celando in modo confuso alcuni dialoghi, alcuni rapporti fin quando la narrazione glielo permette. Quando si parla di Christopher Nolan, una delle critiche che più spesso gli vengono mosse è uno scarso sviluppo dei personaggi femminili, spesso ridotti a meri topoi o private di una vera soggettività. Purtroppo anche Oppenheimer cade in questo errore, specialmente per quello che riguarda il personaggio di Florence Pugh, Jean Tatlock, usata anche in una scena di dubbio gusto durante uno degli interrogatori. Kitty (Emily Blunt), la moglie di Oppenheimer, ha maggiore spazio, ma anche nel suo caso difficilmente è il materiale fornito in partenza a determinare la riuscita del personaggio, quanto l’impegno e la bravura dell’attrice: Emily Blunt, specialmente in un monologo verso la fine, porta con austerità il dolore della donna sullo schermo, ma meritava una maggiore attenzione per non essere relegata al semplice ruolo di moglie sofferente.

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