Nel corso della sua carriera, il regista statunitense Darren Aronofsky ha abituato il pubblico a una tipologia di cinema estremamente specifica: storie estreme dove la sopravvivenza non sembra possibile, ricerche della perfezione o più semplicemente di un’ideale. Si tratta di battaglie perse in partenza, che rendono i suoi protagonisti dei martiri fini a se stessi che non portano un effettivo cambiamento all’esterno della loro autodistruzione. The Whale, il suo nuovo film che arriva nelle sale di tutta Italia il 23 febbraio grazie ad I Wonder Pictures dopo la première alla 79° Mostra d’arte cinematografica di Venezia, cerca almeno in apparenza di cambiare il paradigma: parte da un eroe che, a suo parere, si è già distrutto e che ora può solamente cercare di aiutare le persone che gli ruotano attorno. Vorrebbe essere una storia in un certo senso più speranzosa rispetto al solito (nei limiti che è possibile aspettarsi da parte di Aronofsky logicamente), ma finisce per cadere in una costruzione estremamente artificiosa dell’empatia, che vuole spingere il pubblico a piangere a tutti i costi dimenticando l’agency dei suoi personaggi.

The Whale, ispirato all’omonimo spettacolo teatrale di Samuel D. Hunter (sua anche la sceneggiatura del film), mette al centro della narrazione Charlie (Brendan Fraser), un professore di corsi online di scrittura, che a causa della sua obesità è costretto a restare isolato nel suo appartamento. Ha deciso di non recarsi in ospedale, nonostante i problemi al cuore, a causa della mancanza di un’assicurazione sanitaria e sa di essere ormai vicino alla morte. Per questo decide di impiegare la sua ultima settimana per risanare vecchie ferite e rapporti incrinatisi nel tempo.

Dall’appartamento cupo e disordinato di Charlie entrano e escono fondamentalmente tre personaggi: il missionario della chiesa New Life Thomas (Ty Simpkins), l’amica infermiera Liz (Hong Chau) e la figlia ribelle Ellie (Sadie Sink) con cui prova a ricostruire un rapporto dopo anni di assenza. Nell’ottica del film, la loro presenza serve a dimostrare che, come Charlie si ostina a ripetere innumerevoli volte, le persone sono meravigliose. Lo dice nonostante i commenti crudeli rivoltigli dalla figlia, dagli sguardi confusi e pietosi che gli rivolgono gli altri. Le reazioni verso Charlie convergono verso due estremi: chi lo trova disgustoso e indegno di essere considerato umano e chi prova solo pena nei suoi confronti, cercando di salvarlo anche quando Charlie stesso non crede di meritarlo.

The Whale, già dal titolo, viaggia su una linea estremamente sottile e per questo ambigua. Sa di poter sembrare un insulto diretto e crudele al corpo del protagonista (un corpo che la cinepresa ama seguire costantemente, cercando di ridurre Charlie solo al suo aspetto), ma decide di nasconderla dietro un parallelismo forzato con Moby Dick e una tesina ripetuta come una cantilena.

Paragonato con altri film di Aronofsky, The Whale dovrebbe apparire come un film più accessibile rispetto ai suoi precedenti, meno estremo. La narrazione però porta ogni comportamento all’eccesso, rendendo il protagonista un mero device. Charlie serve solo a portare cambiamento, a ripetere frasi fatte sulla bontà dell’umanità senza però mai rispondere a tono ai comportamenti altrui.

The Whale, come The Son di Florian Zeller (presentato anch’esso alla Mostra del Cinema di Venezia), vuole spettacolarizzare il dolore provato dal suo protagonista con un’empatia fittizia costruita a tavolino per impietosire il pubblico e deumanizzare persone che attraversano la stessa esperienza di Charlie.

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