Se si guarda la lista dei film con il maggiore incasso nella storia del cinema, si nota subito come la quasi totalità di essi appartengano a franchise (o abbiano dato il via ad essi) o siano perlomeno riconducibili a proprietà intellettuali in qualche modo note. Raramente una storia originale arriva a superare i 100 milioni di dollari sul territorio americano (forse l’unico titolo a esserne stato capace negli ultimi anni è stato Knives Out). Nella maggior parte il pubblico viene spinto ad andare al cinema per una già presente fidelizzazione al franchise o alla property. Per questo le parole d’ordine al fine di ottenere successo al botteghino son diventate tre: sequel, reboot e remake.

Non si tratta tuttavia di operazione priva di rischi: la property di appartenenza deve essere rispettata ma modificata a sufficienza da non apparire come una mera copia dell’originale. Se si vuole creare una storia nuova all’interno dello stesso mondo, devono esserci degli evidenti legami col passato per non spiazzare completamente lo spettatore. Questa operazione prende solitamente il nome di legacy sequel: più che un seguito diretto della storia raccontata, è un passaggio di testimone che riconosce e omaggia l’eredità acquisita, ma ne vede anche i limiti e per questo cerca di rivolgersi al futuro sebbene mantenga un’aria nostalgica. Il caso più evidente è forse quello di Star Wars: The Force Awakens (J.J. Abrams, 2015), che ebbe il compito di resuscitare la saga di Skywalker dopo il dubbio successo della trilogia prequel (Episodi I, II e III, distribuiti tra il 1999 e il 2005). La nuova protagonista, Rey, era circondata da elementi già familiari al pubblico: personaggi amati (Leia, Han, Luke) o che hanno legami con essi (Kylo Ren è il figlio di Han e Leia), location note ma anche story beats conosciuti. Nel compiacere i fan della saga, J.J. Abrams finisce però per ricopiare il modello narrativo di Episodio IV: A New Hope, raccontando quindi una storia vecchia con pochi personaggi nuovi.

Nell’ultimo anno sono tornati nelle sale tanti franchise amati dal pubblico con dei nuovi capitoli sospesi tra passato e futuro: Ghostbusters: Legacy di Jason Reitman ha provato a cancellare delle menti il tentativo di reboot al femminile del 2016 (che tuttavia, al contrario, di questo aveva una vera e propria personalità) e Halloween Kills di David Gordon Green cercava invece di dare nuova vita a una storia che ha perso originalità da tempo. In un certo senso, anche il recente Spider-Man: No Way Home può rientrare nel concetto di legacy sequel, essendo riuscito, grazie all’esistenza del Multiverso, a riportare sullo schermo alcuni volti dei precedenti Spiderman (come ad esempio Doc Ock e Green Goblin, due villain nei film di Tobey Maguire. Tutti questi film, per quanto capaci di conquistare il pubblico, seguono percorsi prevedibili e crowd-pleasing: sono dei loop autosufficienti, che solo in rari casi trovano bisogno di crescere.

Il vero legacy sequel però trova la sua forza nell’innovazione e solo due recenti reboot/sequel (o meglio requel) sembrano ricordarselo: Matrix: Resurrections di Lana Wachowski e Scream di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett. Il loro inaspettato punto di forza sta nella loro consapevolezza di essere sequel, spesso esternata anche da alcuni personaggi, ma di percepire la loro identità come un dono e un peso allo stesso tempo.

Matrix: Resurrections nasce, in un primo momento, senza Lana o Lilly Wachowski. Matrix Revolution (2005) rappresentava la fine della storia che volevano raccontare al cinema, eventuali sequel sarebbero stati possibili solo tramite videogiochi o altre forme, comunque distanti dalla trilogia. Warner Bros tuttavia sembra interessata a sfruttare la forza di quel franchise, anche a costo di rimpiazzarle, ma il parere contrario di alcuni attori del cast non fece che rinviare di nuovo il progetto. A spingere Lana a riprendere in mano il franchise di Matrix, furono la morte tragica dei suoi genitori e il conforto che trovò in Neo nel mezzo del dolore. Matrix: Resurrections è, prima di essere un sequel, una critica al modo in cui le corporazioni ci cibano delle storie, strappando loro quello che significano per le persone che le hanno scritte, le hanno vissute e le hanno amate profondamente.

Nel primo atto, Neo, tornato nel Matrix, è Thomas Anderson, uno sviluppatore che dopo il successo della serie di videogiochi Matrix (ispirata dai suoi debolissimi ricordi del passato) viene chiamato dal suo capo perché la Warner Bros desidera farne un sequel al più presto. Durante un pitch meeting, i colleghi suggeriscono più battaglie, più esplosioni, una critica sociale più feroce e tanto altro in un’ininterrotta cacofonia di idee. Lana Wachowski sfrutta quella sequenza per liberarsi delle tante morali che il pubblico sembra avere deciso di associare a Matrix – dalla allegoria sull’esperienza transgender alla denuncia di una società capitalista. Resuscitare una storia appartenente al passato significa tornare a spiegare il suo significato, senza lasciare che questa possa riposare e parlare da sola. Matrix: Resurrections è, nella sua essenza, un modo per Lana Wachowski di riappropriarsi delle sue stesse idee e allo stesso tempo di sottolineare quella che per lei e per sua sorella Lilly è sempre stata la chiave della storia di Neo e Trinity: l’amore. È un sequel spiazzante, che si libera delle sequenze di lotta coreografate di Yeun Woo-ping per concentrarsi su un preciso desiderio personale: riuscire a imporsi anche in un periodo in cui la voce del singolo autore viene soffocata dai bisogni del botteghino. Matrix: Resurrections è nato per non avere sequel e al giorno d’oggi anche questo è un miracolo.

Scream, invece, segue una strada ben diversa. È un legacy sequel molto più tradizionale, prendendo anche il titolo – senza modifica alcuna – dal film che ha dato origine al franchise. Nel mondo dell’horror questo genere di operazioni serve soprattutto per ripulire alcuni degli errori commessi in passato (di continuità ad esempio, vedi Halloween che ha cancellato circa una decina di film con il reboot del 2018). Scream invece sceglie di riconoscere quello che tutti e quattro i precedenti capitoli hanno rappresentato per la serie con la chiara autoironia che lo ha sempre caratterizzato. Già in Scream 2, lo sceneggiatore Kevin Williamson aveva sottolineato come i sequel facessero schifo e fossero già, per definizione, dei film inferiori all’originale. Tatum, nel primo film, chiedeva a Ghostface di non ucciderla per permetterle di partecipare al sequel, prendendo in giro così l’eterno ritorno dei sopravvissuti.

Nemmeno Scream si distanzia da questa tradizione, riportando sullo schermo Sydney Prescott (Neve Campbell), Gale Weathers (Courteney Cox), Dwight Riley (David Arquette) e Judy Hicks (Marley Shelton), ma lo fa più come dedica ai fan che per effettiva necessità della storia. Il mondo dell’horror è cambiato dal 1996, quando è cominciata la saga di Scream. Lo slasher ha lasciato presto spazio a una più profonda analisi della psiche dei personaggi coinvolti. Quando Tara (Jenna Ortega), in una sequenza che ricorda quella che vide protagonista Drew Barrymore nel film originale, subito dichiara di non conoscere la saga di Stab (la serie di film ispirata alle vicende accadute nel primo film, che viene menzionata per la prima volta in Scream 2) e di preferire Hereditary di Ari Aster perché non sono dei semplici spaventi ma delle vere metafore. Scream sceglie di mettere al centro della narrazione proprio Stab per poter così parlare più liberamente del mondo dell’horror e dei modi in cui i sequel distorcono i desideri dei fan.

Rispetto a Matrix: Resurrections, Scream gioca con il suo essere una proprietà intellettuale amata e desidera essere letto, come da dichiarato desiderio di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett (noti al grande pubblico per Ready or Not), come una lettera d’amore prima al regista e creatore di Scream Wes Craven e poi ai fan, a quello che questi film hanno significato per loro. Lo fa tuttavia senza preoccuparsi di mantenere intatto il ricordo del passato, cercando novità e aggiornando la sua profonda autoironia.

Scream e Matrix: Resurrections son due approcci diversi al legacy sequel. Uno si riappropria della sua eredità, l’altro invece la restituisce ai fan. Entrambi però riflettono sul modo in cui il cinema al giorno d’oggi sembra volersi compiacere dei suoi successi senza provare a capirne le ragioni. Tornare su una storia appartenente al passato significa trasformarla in un’arma a doppio taglio: è possibile portare avanti le sue idee ma anche rischiare di distruggerle con una semplice scelta. Morpheus, in Matrix: Resurrections, spiega che nulla calma l’ansia come un po’ di nostalgia, ma è necessario aggiungere che questa non deve essere l’ultimo obiettivo, ma piuttosto un punto di partenza: un posto da cui cominciare a reimmaginare una storia, elevando il passato ma non sminuendo mai il futuro e l’evoluzione.

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