Presentato in anteprima, Fuori Concorso, alla 40a edizione del Torino Film Festival, Il Cristo in gola è il Vangelo secondo Antonio Rezza. Leone d’Oro alla passata Biennale Teatro, l’artista porta in scena la storia di un Gesù silente, che abbandona le parole per esprimersi solo attraverso lancinanti urla di dolore. Che nascondono una incapacità di riuscire a svolgere il proprio ruolo di figlio di Dio di fronte alla fragilità – forse inutilità – dell’uomo.

In un bianco e nero straniante e straziante, quasi a ricordare e omaggiare il pasoliniano Il Vangelo secondo Matteo, Antonio Rezza si affida a suoni ripetuti e ripetitivi, litanie incomprensibili ma ipnotiche per dar vita ai suoi personaggi.

Le scene studiate come se fossero una scenografia teatrale. Come alla rappresentazione teatrale il film si rifà nel lasciare che sia l’espressività, marcata e funzionale, degli attori. Anch’essi limitati nella parola, se non per i rimandi ai versetti del Vangelo o per sarcastici, tremendamente ironici e simbolicamente potenti dialoghi con Ponzio Pilato (Federico Carra), che assolve al ruolo di mostrare a Gesù la sua incapacità di agire per il bene dell’uomo, o con il Diavolo, che assume le sembianze di una piccola anziana, non a caso donna, sicuramente una strepitosa Maria Bretagna.

La lavorazione di Il Cristo in gola inizia nel 2004 e, tra il Lazio e la Basilicata, le riprese si protraggono nel tempo. Come dichiarato da Antonio Rezza:

Faccio un Cristo che non dice una parola, si tappa la bocca e la tappa al suo autore pezzente. Mai sarò così meschino da raccontare con la mente malata ciò che il corpo alla mente ha sottratto, e cioè il significato: i miei gesti hanno tolto di mano il sapere al cervello imbroglione. Qui il problema non è il comunicare, qui la virtù sta nel fatto che quello che volevo dire non l’ho detto: l’azione si è ribellata alle suggestioni della mente incravattata. Ho scritto molte cose da mettere in bocca al figlio di Dio. Ma nell’esatto momento in cui il corpo si è staccato dal volere dell’autore gerarca per interpretare il sapere della carne, lì, con la pietra che scotta, la luce che acceca e con le membra indolenzite da posture innaturali, mi sono liberato dello stupido significato che il pensiero accattone voleva imporre al costato.
Io, simile al Cristo nel dolore della pelle, ho iniziato a strillare per non fermarmi più. E l’autore ha chinato il capo a me stesso. Le urla che invadono il film possono dare il fianco a molteplici interpretazioni. Ma non è questo il caso, io non abbasso la carotide all’infimo livello che il volere le imporrebbe. E’un punto ormai di non ritorno, è una comunicazione che non sollecita il pensiero. Il pensiero, così impiccato dall’intendere padrone.
Il film è filologico fin quando lo dirigo: Maria che partorisce, Giuseppe che sonnecchia, l’Arcangelo proclama, Erode manomette, Battista che sciacquetta. Il film è filologico fin quando lo dirigo. Ma quando mi dirigo mi scappa dalle mani perché io, oltre a quella di Dio, non riconosco neppure la parola mia.

Tra teatro e cinema, chiedendo pietà

Rezza sembra prendere gli elementi cardine del suo teatro – simbolismo, ironia, esagerazione dell’assurdo, per metterli al servizio del suo film. In un continuum teatro-cinema che non è solo ibridazione artistica e visiva, ma anche commistione di linguaggi e intenti comunicativi.

TFF40 Il Cristo in gola recensione

Succede così, da un lato, che il rapporto con la madre si esprima per immagini dal forte impatto simbolico. Sempre ritratti nelle varie posizioni della pietà, quasi a volerle rappresentare tutte pur di riuscire nell’intento di ottenere la comprensione materna. Dall’altro, è nel rapporto con il Diavolo, nel suo ascoltare con perplessa rassegnazione il suo dire a Gesù Tu qui sei sprecato. Devi andare all’estero che sta la voglia di riflettere sulla potente ironia di un figlio di Dio che deve ipotizzare di emigrare per poter essere compreso.

Antonio Rezza, affrontando con ironico rispetto la figura di Gesù come di Dio, lascia che sia Pilato a mettere in dubbio i dettami religiosi. Chiedendosi, ad esempio: si dice che tuo padre ci abbia fatto a sua immagine e somiglianza. Possibile si sia fermato così in superficie?

Al figlio di Dio non resta che urlare il suo dolore. Cercando il conforto materno e, una volta non ottenuto, comprendendo che quel senso di inadeguatezza non è solo suo. Passerà di padre in figlio. Culminando in un continuo e liberatorio seppur straziante pianto di neonato.

Articoli simili