In cima al poster italiano di Everything Everywhere All At Once, la nuova opera dei Daniels (il duo di registi e sceneggiatori composto da Daniel Kwan e Daniel Scheinert) adesso nelle sale italiane dopo l’enorme successo di pubblico e di critica ottenuto negli Stati Uniti, campeggia la scritta “Il film definitivo sul multiverso”. Si tratta di una citazione tratta dalla recensione del film pubblicata su Den of Geek e il suo scopo è chiaro: associare Everything Everywhere All At Once a un immaginario che potremmo descrivere come marveliano, per spingere il pubblico più generalista e propenso all’action film a vederlo. I multiversi sono diventati nell’ultimo biennio l’asso nella manica dell’MCU per offrire una maggiore varietà ai fan che dopo una decina di anni son quasi stanchi dei meccanismi che sembrano. Associare Everything Everywhere All At Once a quel mondo significa dare una chiave di accesso a chi non è stato raggiunto dal passaparola che ha preceduto il suo arrivo in Italia, ma rappresenta anche un profondo disservizio al film.
Definire Everything Everywhere All At Once un film sul multiverso significa riconoscere solo un frammento del complesso mosaico realizzato dai Daniels. Il multiverso è un mezzo più che la l’essenza della storia: è il modo che i personaggi usano per vedere le loro altre vite, quelle che avrebbero potuto vivere se solo avessero fatto una decisione diversa in uno dei numerosi bivi davanti ai quali la vita ci presenta. Il multiverso, nel film di Daniels, vuole rappresentare, più che qualcosa di fantascientifico, forse l’espressione più libera e selvaggia dell’umanità: il caos di vita, di sentimenti che ogni persona prova, i se e i ma che condizionano ogni scelta.
Al centro di Everything Everywhere All At Once c’è una storia estremamente semplice che sfugge all’artificiale esagerazione dell’universo supereroistico: Evelyn Wang (Michelle Yeoh), una donna profondamente insoddisfatta della propria esistenza, gestisce insieme al marito Waymond (Ke Huy Quan, che abbiamo intervistato) una lavanderia a gettoni. I due hanno un appuntamento per un accertamento fiscale con la severa Deidre Beaubeirdre (Jamie Lee Curtis) da cui potrebbe dipendere il futuro della loro attività, ma prima devono fare i conti con l’arrivo dell’anziano padre di Evelyn Gong Gong (James Hong) mentre la figlia Joy (Stephanie Hsu) combatte per ricevere l’attenzione dei genitori.
È un dramma familiare a cui i Daniels decidono di fare intersecare le più variegate citazioni cinematografiche (da Ratatouille a In The Mood for Love) e molteplici generi anche in contrasto tra di loro. Everything Everywhere All At Once è anche una commedia, un fantasy, un’opera di fantascienza, un horror. È tantissime cose e nessuna al tempo stesso. È un film che esiste grazie ai contrasti e trova sua massima espressione nel breve spazio dove i contrasti si sovrappongono, dove le dualità dimostrano che non potrebbero esistere senza l’altra parte della medaglia.
Everything Everywhere All At Once può apparire all’inizio come un percorso estremamente confuso e frastagliato per lo spettatore, che a pochi minuti dall’inizio viene spinto verso percorsi inattesi e disorientanti. Si tratta di una confusione profondamente calcolata, dove ogni aspetto ha un senso se si prova a dare fiducia ai Daniels. Magari non avremmo avuto la possibilità di saltare tra gli universi o di fare impressionanti lotte con un marsupio come arma, ma l’amore e l’incomunicabilità che affliggono e contraddistinguono la famiglia protagonista son presenti nella vita di tutti e forniscono al pubblico una mappa, un’ancora a cui aggrapparsi quando la confusione diventa troppa e quando sembra essere sparita ogni traccia di senso. Bisogna avere fiducia ed aprire gli occhi per scoprire la bellezza e la poesia che si nascondono in quell’assurdo caos, che sia quello della finzione dei Daniels che quello della nostra vita.