Rilasciata dal 21 settembre su Netflix, la docuserie Wanna si presenta come un’incredibile saggio antropologico in quattro episodi sul fenomeno dei televenditori e sul ruolo delle televisioni private nella formazione del pubblico degli anni Ottanta. Ma anche su una società, a cavallo proprio tra gli anni Ottanta e l’inizio dei Duemila, profondamente debole, suggestionabile ed incapace di discernere tra ciò che è marketing televisivo e azioni che si configurano come tra le più inquietanti truffe della storia della televisione italiana.

Vanna Marchi (diventa Wanna dopo i primi successi in tv) nasce da una famiglia di contadini emiliano-romagnoli. Rivendica fortemente l’umiltà delle sue origini, come il suo titolo di studio che non ha superato la quinta elementare. Lo fa in quanto si tratta di elementi funzionali alla creazione del suo personaggio. Una donna povera, costretta dalle amarezze e dalle delusioni vissute a cavarsela da sola, anche per mantenere non solo se stessa, ma anche i suoi figli. Una donna svilita dalla suocera, maltrattata dal marito, lasciata sola a occuparsi del suo benessere.

Da shampista a Regina delle televendite

Nei quattro episodi che costituiscono la docuserie Netflix, è proprio Wanna Marchi a raccontare la sua storia. Dall’ascesa al successo fino al baratro in cui si è trovata dopo il processo e alla condanna a 9 anni di carcere (ridotti a 6 per buona condotta) per associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata.

Certo, si alternano anche testimonianze dirette di colleghi televenditori (alcuni, volti davvero molto noti delle tv private negli anni Ottanta prima e dei programmi trash nostalgici di quelli successivi), di ex collaboratori, di persone che sono state truffate dalla Ascié (la società gestita da Wanna Marchi e la figlia, Stefania Nobile). Ma è direttamente lei, la Regina delle televendite in persona, Wanna Marchi, a raccontare se stessa e tutte le vicende della sua vita che la hanno portata nel carcere dell’inferno dal paradiso delle creme e degli amuleti portafortuna.

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Immagine dalla docuserie Wanna su Netflix

Ed è proprio da lei che abbiamo la conferma di ciò che, in fondo, abbiamo sempre sospettato. La Marchi non prova nessun rimorso. Non si sente toccata dalle storie delle oltre 300.000 vittime dei suoi raggiri in 20 anni di carriera televisiva. Con il suo trucco pesante. I suoi capelli biondissimi. La sua iconica voce urlata, forgiata in decenni di lavoro da teleimbonitrice.

Racconta di quando girava per i parrucchieri di Ozzano dell’Emilia a proporsi come truccatrice e per piccoli interventi da estetista. Di come ha iniziato a ideare la sua personale linea di prodotti, affidandosi ad uno sconosciuto team di chimici a cui spettava il compito di realizzare le sue creme a base di alghe o a cui, dopo averne già venduti migliaia di esemplari durante le sue televendite, affida il compito di creare il famoso scioglipancia. Un prodotto miracoloso, nato nell’impeto di una diretta. Che alla Marchi non importava se funzionasse o meno. Perché, per sua stessa ammissione, tanto lei sarebbe riuscita a vendere qualsiasi cosa.

Non aveva eguali tra i televenditori nel ventennio a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Tutti sapevano che sarebbe sempre stata lei la migliore televenditrice. In pochi anni, apre nuove sedi del suo negozio. Li riapre quando vengono incendiati, probabilmente per un ricatto della malavita calabrese, di cui alcuni membri frequentavano assiduamente casa sua e della figlia. Raddoppia lo spazio per i centralinisti, con i telefoni che non smettono di squillare. Notte e giorno.

Perché il pubblico di Wanna Marchi non dormiva mai. Era composto da persone la cui unica compagnia era la tv accesa in salotto. Persone prevalentemente sole. Casalinghe trascurate dai mariti. Madri preoccupate per il destino dei loro figli. Pensionati che cercavano compagnia e che ricambiavano quella dei telefonisti della Ascié a suon di milioni spesi in prodotti di bellezza.

Seppur mal voluta tra gli abitanti della stessa Ozzano che la ospitava, guardata a vista dai proprietari delle tv private concorrenti e circondata dal costante dubbio di rapporti mai completamente chiari con la malavita, Wanna Marchi era la Regina delle televendite. E sembrava che nessuno potesse mettere in dubbio il suo trono.

Immagine dalla docuserie Wanna su Netflix
Tra Maestri di Vita e Tapiri salati

Alla fine degli anni Novanta, Wanna Marchi e Stefania Nobile sono all’apice del successo. E ricche. Molto ricche. Talmente tanto da non vergognarsi di farsene vanto. Anzi, serve ad accrescere il loro ruolo di regine indiscusse di un fenomeno culturale e sociale di enorme portata come quello delle televendite, che avevano così fortemente contribuito a lanciare. Avevano tutto: soldi (milioni di lire, un’enormità per l’Italia di allora), case ed auto di lusso, una società florida che riceveva migliaia di ordini giornalieri. Ma la vendita dei prodotti di bellezza non basta più. Semplicemente perché il pubblico davanti alla tv sta radicalmente cambiando.

Non basta più alla Marchi urlare per insultare quelle donne che si sono sposate che pesavano 50kg e ora costringono gli uomini a dormire accanto a degli elefanti (parole sue, che ripete più volte nel corso della serie, quasi a voler sottolineare il disprezzo che prova per queste donne). Le donne a casa non vogliono più creme idratanti, alghe con cui cospargersi il corpo o profumi pubblicizzati da aitanti modelli. E non solo perché si sono trasformate in casalinghe disperate. Ma perché ora il pubblico che segue le televendite di Wanna Marchi e figlie rispecchia pienamente i cambiamenti della società in cui vive. Sono persone che stanno perdendo o hanno già perso il lavoro. Donne che vengono maltrattate dai mariti. Madri che devono affrontare i problemi di tossicodipendenza dei figli. Sono persone che hanno bisogno solo di una cosa: qualcuno che dia loro una via d’uscita dall’angoscia provocata dalle loro vite.

Ed è qui che Wanna e Stefania Nobile commettono un errore che sarà loro fatale. Lasciano perdere la cosmesi. Trasformano un cameriere scalzo incontrato casualmente durante una cena a casa di un loro losco finanziatore nel Maestro di Vita Do Nascimento. E se fino ad allora avevano conquistato la fiducia degli spettatori seppur vendendo loro inefficaci prodotti di bellezza, ora puntano dritte alle loro debolezze, alle loro paure. Con una certosina analisi del loro infinito database, puntano sulle persone più deboli, più sole. Donne, pensionati. E offrono loro amuleti, numeri al lotto, riti contro il malocchio, per conquistare un amore perduto, per trovare lavoro, per far sì che il loro figlio smetta di bucarsi. E quei coglioni (ancora una volta, parole della sempre pacatissima Wanna Marchi in persona) ci cascano. Continuano a spendere milioni di lire pur di avere la bustina di sale da sciogliere in un bicchiere trasparente pieno di acqua pura da chiudere in un armadio per una settimana.

Ma qualcosa smette di funzionare. Una donna, seppur anziana e sola, non abbocca alla loro telefonata. E chiede l’aiuto dei figli per contattare gli autori di Striscia La Notizia. Sarà così che Jimmy Ghione inizierà ad interessarsi della vicenda. Confezionando un servizio che incastrerà la Ascié alle sue responsabilità, costringerà Do Nascimiento alla fuga in Brasile e porterà Wanna Marchi e Stefania Nobile in carcere.

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Immagine dalla docuserie Wanna su Netflix

Nell’ultimo episodio di Wanna assistiamo a tutte le fasi del processo, fino a quel momento mostrate velocemente. Come a ricordarci che non sarebbe arrivato il principe azzurro a salvare la nostra Regina e la figlia. Sentiamo le testimonianze, interrotte dai pianti provocati dalla disperazione dei milioni persi nelle truffe in cui sono incappati. Ma, soprattutto, per la vergogna provata ad essere stati raggirati in modo così becero. Basti pensare che, nonostante un database di migliaia di persone, solo poco più di una ventina accettò di presentarsi come parte civile al processo.

Nessun rimpianto. L’ultimo oltraggio delle Marchi

Non lo negheremo. Chi scrive non ha mai compreso appieno il fenomeno delle televendite né tanto meno è mai stata tra i fan (e, credeteci, erano tanti) di Wanna Marchi. Ma non riesce a non consigliarvi di guardare la docuserie targata Netflix appena uscita.

Perché si tratta, come abbiamo detto sin dall’inizio, di uno straordinario spaccato sulla società italiana dell’epoca. E su una fenomenale sottocultura (quella delle televendite) che è stata capace non solo di rappresentare e cavalcare pienamente i desideri degli italiani. Ma anche di dominarla, schiacciarla, ridicolizzarla. Tutto alla luce del tubo catodico. Senza che nessuno intervenisse a fermarli.

Wanna è un monito. Un avvertimento a fare attenzione a quelli che sono i nuovi teleimbonitori: starlette di dubbia professionalità; opinionisti che sbucano dal nulla e vengono invitati a parlare di qualsiasi cosa, soprattutto se non ne hanno i titoli; presentatori eretti a maestri di vita (sic). Attraverso la docuserie vediamo ciò che siamo stati. Come e quanto ci siamo vergognati di essere stati così creduloni. E come e quanto stiamo rischiando di tornare ad esserlo. Voi guardatela. Magari avrete più strumenti per non cascarci una seconda volta. D’ACCORDO?!?

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