La Seconda Guerra Mondiale sta spargendo morte e distruzione per tutta Europa, ma nel villaggio di Vermiglio il conflitto è raccontato, più che vissuto. Non si sentono i suoni degli spari, solo i campanacci delle mucche e il vociare dei bambini. Vermiglio siede sul finire della Val di Sole su quello che un tempo era il confine tra l’Impero austro-ungarico e territorio italiano. La sua posizione di terra di confine ha sempre permesso al paese di vivere sospeso, su una torre che gli permette sia di osservare quello che succede ma anche di essere al sicuro.
Nella Vermiglio ritratta dal film omonimo di Maura Delpero, vincitore del Leone d’argento alla 81° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il clima placido e protetto della città viene turbato dall’arrivo di un soldato siciliano, Pietro (Giuseppe de Domenico), che sembra avere un debole per la giovane Lucia (Martina Scrinzi). Il padre della ragazza è Cesare (Tommaso Ragno), il severo maestro del paese, un uomo severo mosso dal desiderio di portare la musica dovunque. I soldi difficilmente guadagnati, che potrebbero essere spesi per il cibo come gli ricorda la moglie Adele (Roberta Rovelli), sono reinvestiti in dischi per permettere a tutti di ascoltare le Quattro Stagioni di Vivaldi.
Quella di Cesare e Adele è una famiglia numerosa, difficile da contenere in una singola storia: dieci figli che affollano la cucina, che dormono ammassati su letti troppo piccoli per loro e che a volte finiscono per farsi da genitori a vicenda. Per quanto vivace e affollato il ritratto familiare, che Maura Delpero realizza, partendo dalla storia della sua famiglia, è capace di trovare comunque una sua dimensione straordinariamente ordinata, incentrata sul mite susseguirsi delle stagioni e sul cambiamento che queste possono portare, il tutto fotografato con un sognante romanticismo da Mikhail Krichman.
Per quanto l’arrivo di Pietro possa essere considerato come un possibile elemento di disturbo nel clima famigliare, non è mai una minaccia: lo stretto legame famigliare, il ruolo che ogni membro interpreta per natura o perché le situazioni glielo richiedono, è sempre più forte di qualsiasi influenza esterna. Con la convivenza sullo schermo di attori professionisti e non, Vermiglio ha un’approccio quasi documentaristico nel suo racconto, che tuttavia non dimentica mai una timida dolcezza, una nostalgia verso una vita diversa, rurale, lontana dai crismi della modernità.
Nel suo sfiorare le due ore di durata Vermiglio rischia talvolta di essere ripetitivo, anche a causa dell’assenza di una vera e propria trama a favore di una visione più vignettistica del racconto. La famiglia tuttavia è anche lì nelle ripetizioni, nella costruzione di una routine collettiva e Maura Delpero, attraverso questo film non solo riesce a dimostrare un’importante destrezza nel gestire un gruppo così folto di personaggi facendoli fuori uscire dalla finzione per renderli persone, ma crea sullo schermo, guidata dalla sua esperienza personale, una famiglia estremamente reale e credibile nella sua essenzialità. Vermiglio non propone un approccio epico, come spesso si è soliti fare con le saghe familiari del passato: il film, da oggi in poche sale italiane nonostante il successo di pubblico e critica, assomiglia più a un album di foto, invecchiato dal tempo, dove da ogni scatto emerge un amore profondo e resiliente.