L’orto americano, il nuovo film di Pupi Avati presentato in chiusura dell’81° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è – per definizione annunciata – un horror gotico, ma il risultato è molto più simile a una commedia per la moltitudine di sconcertanti scelte narrative e recitative che costellano l’opera o forse a quanto potrebbero creare René Ferretti e il resto della troupe di Boris se decidessero di fare un viaggio nel cinema di genere.
Partiamo dal suo protagonista (Filippo Scotti), che come ogni personaggio che si rispetti, non ha un nome. I credits del film lo chiamano semplice “Lui”. Una mattina mentre si sta facendo tagliare i capelli da un barbiere, “Lui”, un giovane bolognese con forti aspirazioni letterarie, scambia due parole (forse arrivano a stento a una frase) con una nurse americana (in questo film la parola “infermiera” non esiste), che il ragazzo decreta fin da subito come l’amore della sua vita.
L’orto che dà il titolo alla storia tuttavia è americano, quindi la narrazione si sposta in fretta e furia nel Midwest e nello specifico in Iowa. Lui ha lasciato la sua casa di Bologna per sei mesi alla signora Markbreiter, impegnata nell’offerta culturale legata al Piano Marshall, e ora vive in una piccola villetta, dove prova a scrivere senza troppo successo.
Vicino a “Lui”, con solo un orto a separarle i due edifici, vive una donna anziana (Rita Tushingham), disperata per la sparizione della figlia Barbara (Mildred Gustafsson), una nurse americana che da tempo non dà più sue notizie. Logicamente si tratta della famosa infermiera incontrata fortuitamente dal barbiere. Allora “Lui” decide di intraprendere un’investigazione degna di Sherlock Holmes, guidata principalmente dalla sua tendenza a parlare con i morti. Questa dote lo porta ad entrare nel celebre orto americano, dove trova un (l’autrice giura che le prossime parole non sono frutto d’immaginazione) barattolo con dentro una vagina conservata nella formaldeide (o come preferiamo definirla qui a Filmaltrove “una vagina sciroppata”). Quel primo indizio lo porterà a tornare in Italia per indagare sulle sorti di Barbara.
Per esigenze narrative, il film è recitato parzialmente in inglese, ma sembra che nessuno degli interpreti coinvolti, persino quelli che dovrebbero essere britannici, abbiano mai esercitato oralmente la lingua. La scelta forse più sconvolgente è riservata a Arianna (Morena Gentile), sorella di Barbara, la cui attrice è palesemente doppiata con un ritardo di qualche istante rispetto al labiale e il risultato, sommato a dei dialoghi estremamente forzati, che paiono usciti da un listening A1 del Cambridge, è tristemente esilarante.
Come giallo investigativo, L’orto americano è estremamente ovvio e appena la storia si sposta in Italia è facile capirne la conclusione. Come “scorretta” storia d’amore, le due parti di suddetta storia non interagiscono mai al di là della richiesta di indicazioni stradali e quell’amore diventa solo un motore (debole) per l’indagine. Come horror gotico, la sua oscurità è limitata alle voci che “Lui” continua a sentire nella sua testa e a una tendenza a parlare con un album di foto, o meglio di figurine, di tutti morti della sua famiglia. L’orto americano pare strizzare l’occhio a registi come Buñuel e Hithcock, usando per giunta un bianco e nero che non aggiunge nulla alla storia, ma finisce per essere una mera accozzaglia di riferimenti a opere più riuscite, un pallido ricordo del Pupi Avati di un tempo.
Come già anticipato in apertura, se vi è un ambito in cui L’orto americano eccelle, nonostante non sia minimamente il suo scopo, è la commedia. Ogni indizio cade dal cielo nelle mani del protagonista: dove non arriva il suo (fallace) intuito arrivano le voci dei morti che gli suggeriscono dove andare o preti esperti in letteratura greca. Filippo Scotti, Coppa Mastroianni al tempo di È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, cerca di fare il possibile con una sceneggiatura esilissima ed estremamente mononota per il suo personaggio. Il mistero centrale, soprattutto per la svolta che prende in Italia con l’ingresso in scena di un possibile serial killer, potrebbe avere un potere salvifico sulla narrazione, ma finisce solo per essere frustrante nel suo evitare ossessivamente di dare risposte al pubblico.