Quando il magnante Van Buren (Guy Pearce) interroga László Tóth (Adrien Brody) sulla ragione del suo amore per l’architettura, la sua risposta è tanto semplice quanto profondamente rivelatrice della natura stessa di The Brutalist: “Non c’è descrizione migliore del cubo che la sua stessa costruzione”. Il nuovo film di Brady Corbet, presentato nel Concorso Ufficiale dell’81° Mosta d’Arte Cinematografica di Venezia, è difatti composto da un tripudio di costruzioni indipendenti e interconnesse al tempo stesso. Vi è la costruzione (o meglio ricostruzione) di un uomo che riesce ad ottenere un’inaspettata seconda possibilità, la costruzione e la conseguente distruzione del sogno americano che inquadra gli Stati Uniti come una terra promessa che finisce per distruggere i meno fortunati. È anche una costruzione nel senso più letterale del termine, con un edificio tanto maestoso quanto di natura estremamente essenziale, concentrato sulla funzionalità ma con un riguardo particolare all’estetica.

The Brutalist arriva a Venezia dopo una lunga gestazione – o meglio costruzione: annunciato sul finire del 2018 in occasione della première veneziana della sua opera seconda Vox Lux, fu annunciato nel 2020 un cast totalmente diverso che vedeva Joel Edgerton e Marion Cotillard nei ruoli principali di László e Erzsébet che a causa di numerosi ritardi produttivi dovuti al COVID e tante altre problematiche si trasformò nel 2023 nel gruppo di lavoro effettivo del film. Il risultato è un’opera dalla durata titanica, 215 minuti con all’interno un intervallo di 15 minuti, 26 rulli di pellicola del peso complessivo di 136 chili con un operatore che alla fine della prima proiezione per la stampa ha esultato come mai prima.

Il film di Brady Corbet prosegue la strana tradizione veneziana aperta da Tàr dei biopic ambigui: opere che vivono sulla sottile linea tra realtà e finzione, portando storie talmente verosimili e calate nel reale (difatti la parabola di vita di Tóth assomiglia molto a quella di Marcel Breuer) che appaiono come qualcosa di dimenticato nel tempo piuttosto che frutto di mera finzione.

È il 1947 quando, dopo essere sopravvissuto all’occupazione di Budapest e all’internamento a Buchenwald, László può finalmente gustare la libertà. Uno dei primi scorci dell’America che The Brutalist riserva allo spettatore è una Statua della Libertà a testa in giù, un presagio di una libertà promessa ma mai concretizzabile. Accolto a braccia aperte dal cugino (Alessandro Nivola) che ha da tempo rinnegato le sue origini cambiando cognome e sposando una donna cristiana, si trova presto a cercare il suo ruolo nel mondo in un paese troppo grande per lui e così si scontra con la famiglia Van Buren, prima per rinnovare una libreria e poi con il mostruoso incarico di costruire un imponente centro ricreativo, apparentemente laico in cui però la comunità cristiana per imporre la presenza di una cappella. Nel mentre combatte per ricongiungersi con la moglie e la nipote Zsófia, rimaste bloccate al confine e che appaiono per metà film solo sotto forma di una fitta corrispondenza epistolare.

Per essere un film ossessionato dall’arte della costruzione in tutte le sue accezioni, The Brutalist arranca nel concludere la sua magnifica distruzione dell’America e delle sue mille promesse. Senza cadere in spoiler, quando il film approda in Italia, il desiderio di dare una forma manifesta al rapporto tra mercenario e mecenate, tra artista e committente, porta The Brutalist a mettere in disparte la vicenda artistica per vagare con confusione e vaneggi vari nella psiche umana. È una macchia in una sceneggiatura puntuale che, nonostante la durata non appare mai ripetitiva o lenta, ma basta una sbavatura per espandersi e minacciare le stesse fondamenta della costruzione architettonica di László.

Adrien Brody risulta crudo, austero e profondamente malinconico nel ruolo, capace di evocare i tempi de Il Pianista. Anche Guy Pearce, nei complicati panni di Van Buren, ha spazio per mostrare il suo talento, troppo spesso sottovalutato. Il resto del cast non può contare su altrettanta attenzione, con ruoli esili spesso ridotti a una sola nota (Joe Alwyn nei panni di Harry Lee Van Buren è un’occasione tristemente mancata). The Brutalist, nonostante alcune (grandi) sbavature, è un raro film nel panorama contemporaneo che ha il coraggio di imporsi, di presentarsi come classico più che mero film con un autore che decide di sognare in grande anche a costo di cadere in un’enfatica esagerazione.

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