Dopo aver parlato della vita nelle sue accezioni più vibranti ed esuberanti per tutta la sua carriera, negli ultimi anni Pedro Almodóvar sembra essere approdato in una nuova fase del suo cinema, più malinconica matura e riflessiva, un’interrogazione continua sulla morte, sulla memoria e sul proprio lascito. 

The Room Next Door, presentato nel Concorso Ufficiale dell’81° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, si situa a metà tra i suoi due ultimi film, Dolor y Gloria (2019) e Madres paralelas (2021), ma segna anche una profonda novità nel cinema di Almodóvar: è difatti il primo lungometraggio per lui in lingua inglese. Finora le sue avventure anglofone si limitavano ai cortometraggi, come The Human Voice e Strange Way of Life, più somiglianti a delle sperimentazioni, dei luoghi sicuri dove poter provare altri generi o registi stilistici senza l’impegno produttivo del lungometraggio.

Partendo dal romanzo What Are You Going Through di Sigrid Nunez ma senza adattarlo nella sua interezza (la sceneggiatura prende difatti solo uno dei “racconti” contenuti), The Room Next Door dà corpo a una narratrice mai nominata, che qui diventa Ingrid (Julianne Moore). Al firmacopie del suo ultimo romanzo, la donna scopre grazie a una conoscenza in comune che la sua amica di vecchia data Martha (Tilda Swinton), con cui da tempo aveva perso i contatti, si trova in ospedale, tra cure sperimentali che sperano, forse con troppo ottimismo, di riuscire a guarirla da un cancro terminale alla cervice. 

Nonostante il senso di fine che accompagna il loro ritrovarsi, il film non sceglie mai la strada dell’autocommiserazione o della pornografia del dolore. Pedro Almodóvar, come suo solito, preferisce optare per una dolce malinconia che guida questa ritrovata amicizia tra le due donne e soprattutto la scelta da parte di Martha di essere accompagnata da Ingrid nell’ultimo mese di vita.

La sceneggiatura di Almodóvar segue alla lettera i dialoghi del libro di Nunez, quasi senza adattarli, e se questi funzionano sulla carta stampata, il risultato sul grande schermo è una lingua aliena, forzata, eccessivamente impostata: una macchina di aforismi sul presente, sul passato, sulla morte e sulla vita. Se una delle regole più antiche del cinema e soprattutto della narrazione è il cosiddetto show, don’t tell, qui Almodóvar preferisce un approccio pressoché teatrale con una recitazione eccessivamente enfatica, specialmente da parte di Swinton (che invece in The Human Voice era calata alla perfezione nel colorato mondo del regista spagnolo) e una verbosità che nega la possibilità del silenzio.

L’idea della perfezione, da sempre presente nella messa in scena di ogni opera di Almodóvar, trova qui una forma ossessiva: dai vestiti all’arredamento, le inquadrature cercano un citazionismo continuo di quadri, prestandosi agli account di Instagram che amano estrapolare fotogrammi dai film per ragioni meramente estetiche. L’impostazione estremamente verbosa e poco umana di The Room Next Door spoglia lentamente il film della sua umanità, portandolo a essere una creatura aliena che studia in tempo reale i comportamenti delle sue protagoniste senza mai riuscire a capirli.

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