Prodotto da Kino produzioni con Rai Cinema in co-produzione con June Films e distribuito da Fandango, dopo la presentazione in anteprima internazionale alla passata Berlinale, arriva da domani in sala Quell’estate con Iréne, nuovo film del sempre più promettente regista Carlo Sironi.

Nel cast, due splendide giovani interpreti, Noée Abita e Camilla Brandeburg, protagoniste di un racconto che si muove agilmente tra il dramma e il coming of age puro. Con viste poetiche sulle spiagge della Sicilia, Quell’estate con Iréne ci racconta un avventuroso viaggio in fuga dalla malattia e alla ricerca di emozioni capaci di riportare la voglia di vivere.

La trama

Agosto 1997. Clara e Irène si incontrano per la prima volta durante una gita organizzata dall’ospedale che le ha in cura. Timida e solitaria l’una, sfacciata e inarrestabile l’altra, in comune hanno soltanto i loro 17 anni e quella malattia che sembrava sconfitta ma è ancora un’ombra presente nelle loro vite. Eppure quando sono insieme la paura svanisce e bastano poche ore a renderle inseparabili.

Al punto di decidere di scappare insieme su un’isola lontana da tutti dove poter finalmente vivere la loro prima vera estate. Viaggi in luoghi dove tornare ad essere spensierate, nuovi incontri e fugaci emozioni renderanno la loro vacanza davvero indimenticabile. E il loro legame unico.

Intervista al regista, Carlo Sironi

Quell'estate con Iréne intervista Sironi

Nato a Roma, a 18 anni Carlo Sironi inizia a studiare fotografia e a lavorare nel cinema come aiuto operatore e in seguito come assistente alla regia. I suoi cortometraggi Sofia, Cargo e Valparaiso sono stati presentati in numerosi e prestigiosi festival, tra cui Sedicicorto Forlì International Film Festival, Torino, Venezia e Locarno.

Il suo primo lungometraggio, Sole, debutta in concorso nella sezione Orizzonti a Venezia76, partecipa ai festival di Toronto e Berlino, ottiene una candidatura al David di Donatello e ai Nastri d’argento e vince il Discovery Prize come migliore esordio agli European Film Awards 2020.
Quell’estate con Irène è il suo secondo film, selezionato alla 74. Berlinale. Lo abbiamo incontrato al Bellaria Film Festival, in occasione dell’anteprima italiana del film.

Dalla visione di Quell’estate con Iréne si ha la sensazione che la tua cifra stilistica sia ormai delineata. C’è molta continuità lo sguardo che avevi anche nei tuoi corti e in Sole. Una ricerca verso il particolar, il dettaglio.

Io credo che alla fine, per quanto le idee di fondo da cui poi nasce il film siano molto diverse – Sole è una ricerca surreale, in cui attraverso molte interviste mi sono voluto calare in un mondo più lontano dal mio vissuto, ma per me molto importante da mostrare dal punto di vista di stato sociale – c’è sicuramente una continuità. Che però in Quell’estate con Iréne si è evoluta. Questo un film di scoperta, anche di avventura e riappropriazione dello spazio.

Quell'estate con Iréne intervista Sironi

Quello che ho fatto qui è stato ragionare su uno strumento semplicissimo nel cinema, che avevo finora usato pochissimo, che è la panoramica. Il film è dominato dall’idea di panoramica, di come farla, in che modo, in che momento, come porsi rispetto ai personaggi tra lo spazio (quindi, il paesaggio) e il corpo.

Già con i tuoi precedenti lavori era chiara la tua incredibile capacità di gestione del mezzo. In Quell’estate con Iréne percepiamo di più la tua voglia di usare la tecnica per creare un racconto.

C’era proprio la voglia di confrontarmi con la sintassi e, soprattutto, di cercare di slegarsi dalla convinzione che l’attinenza di un’emozione sia legata ad una vicinanza con il soggetto. Ho voluto cercare di far sì che ogni scena avesse un suo linguaggio ed un modo diverso di essere raccontata.

Io ho, comunque, una tendenza a rendere un po’ sospeso il racconto. Questo è rimasto. Come successo con Sole, anche questa è una storia di due protagoniste che non si conoscono all’inizio e che quando si incontrano sentono, senza che avvenga qualcosa di definito, di salvarsi la vita a vicenda. Rimane dai miei precedenti lavori la voglia di raccontare qualcosa, osando e usando il silenzio. Lasciando parlare il silenzio. Una cosa che si tende a fare sempre di meno che io amo molto. Che il cinema sonoro, come diceva Robert Bresson, ha inventato il silenzio dovrebbe essere un principio base del Cinema secondo me.

Parlando delle due protagoniste, quanto sei entrato nelle scelte di casting e cosa ti ha guidato?

Il cast l’ho progettato e diretto io, insieme alla Casting Director, Sara Casani. Noée (Abita, NdR) è stata da subito un’idea. Durante una residenza di scrittura per Sole, ho visto Ava, il primo film in cui ha recitato e sono rimasto folgorato da lei e, nel momento in cui stavamo pensando la struttura del personaggio con Silvana (Tamma, co-sceneggiatrice insieme allo stesso Carlo Sironi, NrR), mi sono ricordato di quella visione, della sua leggerezza apparentemente naif ma molto profonda e un senso di alterità che ha sempre nello sguardo. E ho chiesto direttamente a lei, rendendo il personaggio francese.

Quell'estate con Iréne intervista Sironi

Camilla (Brandeburg) l’abbiamo trovata tra centinaia e centinaia di ragazze. Fino a quando, quando l’abbiamo incontrata, è stato chiaro a tutti che avessimo incontrato una creatura speciale. E ci siamo subito convinti, senza titubanze.

Sempre parlando di cast, c’è un altro fil rouge diretto con Sole: la presenza anche qui di Claudio Segaluscio.

Claudio è stato abbastanza naturale coinvolgerlo nuovamente. All’inizio mi ero fatto l’idea che servisse più una persona che richiamasse l’idea di un paesaggio bucolico, mentre Claudio ha più qualcosa di urbano. Ma, nel momento stesso in cui ho fatto incontrare Camilla e Claudio, li ho visti perfetti.

Claudio è irresistibile. Ha una naturalezza e, allo stesso tempo, una natura, irresistibile. Ma anche una profondità di sguardo che mi ha aiutato moltissimo a tirare fuori al personaggio di Clara il romanticismo che sembra apparentemente non avere o non essere pronta ad avere. Claudio è stato fondamentale. E anche molto generoso.

Parlando della colonna sonora, il cui registro musicale cambia spesso all’interno del film, come è nata?

Gli stati d’animo del film erano diversi, discordanti. E la musica doveva portare in quella direzione. L’idea iniziale è stata quella di avere molti pezzi folk. Parlo del pezzo dell’inizio, delle The DeZurik Sisters, che dà subito l’idea di un viaggio, di nostalgia che c’è intrinseca nel film. Poi c’è il mezzo, per me meraviglioso, di Braian Hobart con il flauto dolce e il tamburo è stata un’idea che abbiamo avuto abbastanza presto.

Poi, ripensando a tutte le musiche che negli anni avrei voluto usare ma non riuscivo mai a trovare uno spazio, c’è stato il piano di Michael Nyaman, che è il pezzo di cui sono più contento, perché è un brano che era stato pensato per un mediometraggio di Peter Greenaway, ma che poi non era stato utilizzato. Un pezzo di musica contemporanea lunghissimo, di 32 minuti, di cui noi abbiamo utilizzato una piccola parte. E l’hard core. Per me da sempre fondamentale.

Quell'estate con Iréne intervista Sironi

L’unico pezzo che è arrivato dopo, al montaggio, è stato quello di Angel Olsen, che c’è anche nel trailer e che accompagna il ritorno di Clara a casa. Quello a cui avevamo pensato, di un gruppo molto piccolo di un college americano, non ci è stato concesso per la non volontà della band di partecipare al film. Ma ne sono contento. Perché mi ha dato modo di affidarmi proprio al pezzo di Angel e il risultato è stato migliore. Ne sono particolarmente affezionato.

Credo che alcuni film abbiano la possibilità di essere dei jukebox. Sono contento del fatto che Quell’estate con Iréne lo sia. Per me rappresenta proprio tutto quello che ho sempre amato della musica. Arrivando fino ai Cure nei titoli di coda.

Kino Produzioni è la prima casa di produzione ad aver creduto in te, dai primi corti a Sole. Ha continuato a farlo con questo tuo secondo lungometraggio. Come è il vostro sodalizio?

Con Giovanni Pompili ci conosciamo da tanti anni. La grande fortuna che abbiamo avuto è stata quella di incontrarci nel momento giusto. Io avevo fatto il mio primo cortometraggio, Sofia, che era stato a Torino e stavo cercando di fare il secondo, incontrando un po’ di problemi. Lui voleva incominciare a produrre cose da solo. E abbiamo fatto insieme Cargo, andando a Venezia.

Quell'estate con Iréne intervista Sironi

In qualche modo, io so di essere stato fortunato, ma so che questa fortuna ce la siamo creata reciprocamente. Siamo stati l’uno quello di cui aveva bisogno l’altro. Riconoscere che mi viene lasciata una libertà incredibile, proprio perché sento che si crede nel lavoro che faccio, è ovviamente un qualcosa che non mi lascia indifferente. Per me la Kino Produzioni è come se fosse casa.

Il film esce domani in sala, distribuito da Fandango. Cosa vorresti arrivasse al pubblico?

Sicuramente questo senso imperante della memoria. Del fatto che, per quanto le persone ci siano, non ci siano più, siano ancora con noi o siano scomparse, rimane il ricordo, ma anche l’esperienza vissuta insieme. Vorrei arrivasse il lato ambivalente di come ricordiamo una persona e la memoria che rimane. E per me anche questo è il Cinema. Infatti, vorrei che arrivasse anche il mio grande amore per il mezzo cinematografico.

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