Spesso si racconta che la nascita di un figlio dovrebbe essere il momento più bello della vita di ogni genitore. Il frutto dell’amore di una coppia rappresenta il destino ultimo della famiglia tradizionale, rafforzando i ruoli stereotipicamente rivestiti dai genitori. Un figlio è anche il frutto di una lunga gestazione fisica e mentale, fatta di dolori, preoccupazioni e aspettative su quello che sarà il futuro del nascituro. Quando La vita accanto, il nuovo film di Marco Tullio Giordana da oggi 22 agosto nelle sale dopo la première al Locarno Film Festival, mostra per la prima volta il volto della neonata Rebecca, capiamo subito che qualcosa non va. Lo vediamo negli occhi di suo padre Osvaldo (Paolo Pierobon) e della zia Erminia (Sonia Bergamasco) quando notano la grande macchia rossa che copre il collo e parte del viso della bambina. 

Quella non è una voglia, ma una condanna. Non è una semplice caratteristica che potrebbe essere inserita sotto “segni particolari” in una carta d’identità, è la fine del suo essere figlia e l’inizio del suo essere mostro, specialmente agli occhi della madre Maria (Valentina Bellè). La stessa donna, che prima saltellava per le scale per la gioia di essere incinta, ora vede Rebecca come una malattia, un parassita che la sta divorando dall’interno, il tutto a causa della sua inaspettata “bruttezza”. La figlia cerca allora di redimersi attraverso un grande talento musicale, mentre si affaccia sul mondo insieme alla sua compagna di banco Lucilla, che può vantare una vita famigliare altrettanto strana.

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Basato sull’omonimo romanzo di Mariapia Veladiano, La vita accanto espone in maniera lapalissiana una tendenza particolarmente forte negli ultimi lavori di Giordana, come in Yara e Nome di donna: il melodramma prende possesso della narrazione, indipendemente dalla sua forma o dai temi trattati, e fagocita tutto quello che la circonda. Ogni conflitto diventa così utile solo a creare l’ennesimo litigio tra i personaggi, per farli urlare tra di loro con frasi estremamente artefatte. Il rapporto tra madre e figlia, nello specifico l’odio causato dalla bruttezza di Rebecca, non è mai davvero esplorato e quello che rimane in superficie è una pura apatia che verso la fine del film scivola in una sagra del grottesco.

Il film annuncia fin dall’inizio di essere ambientato negli anni 80 ma finché la narrazione rimane chiusa tra le porte della dimora familiare è praticamente impossibile saperlo. La vita accanto cerca costantemente il distacco dal tempo, dallo spazio, tra i personaggi: una scelta che vorrebbe rappresentare l’alienazione aristocratica della famiglia protagonista, ma che finisce per essere solamente una parodia fine a se stessa. Ogni personaggio vive così in un universo a parte, ogni accenno che permetta di dar loro una maggiore profondità è lasciato cadere nel vuoto.

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La sceneggiatura, che oltre a quella di Marco Tullio Giordana vede la firma di Gloria Malatesta e Marco Bellocchio, dimostra la differenza fatale tra gli stili di due grandi autori del cinema italiano, che qui si ritrovano a combattere per portare il film in direzioni diverse e opposte per poi arrivare a un finale che, senza cadere in spoiler (e qui stranamente se ne potrebbero fare), minaccia le stesse fondamenta della storia. Laddove c’era una puntuale riflessione sulla diversità, ora resta solo una vacua autoconsolazione per chi preferisce l’omologazione.

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