A cinquant’anni dal 25 aprile 1974, Luciana Fina riscopre e reinterpreta le immagini della Rivoluzione dei Garofani in Portogallo. Lo fa grazie al prezioso accesso ai materiali d’archivio che le viene concesso dalla Cinemateca Portuguesa e della RTP (televisione di Stato portoghese).

Il suo documentarioSEMPRE, partendo dal passaggio complesso e vissuto non senza traumi dalla dittatura fascista alla liberazione, porta lo spettatore a rivivire il processo di costruzione di un nuovo Paese. Alla ricerca di una eredità storica che si sta perdendo e che potrebbe fortemente influire sul presente e il futuro di un Paese in confusione.

Con un montaggio dinamico, spesso pop, in SEMPRE Luciana Fina cerca si unire le spesso anche diversissime anime che hanno contribuito a formare la comunità e la cultura portoghesi in quei delicati e convulsi anni. Dalla rigidità del Salazarismo e della PIDE (Polícia Internacional e de Defesa do Estado), alle occupazioni studentesche del 1969. Senza dimenticarfe il ruolo rivoluzionario del Movimento delle Forze Armate del 1974, i sogni, i programmi e le prospettive del PREC (Processo Revolucionário em Curso), le sfide della decolonizzazione. Senza dimenticare il ruolo imprenscindibile svolto nel processo di resistenza e liberazione da artisti, cantautori, compositori e registi radiofonici.

Giornate degli Autori Sempre

Abbiamo intervistato Luciana Fina, regista e artista visiva con un lungo e proficuo rapporto professionale con il Portogallo.

Arrivi in Portogallo all’inizio degli Anni Novanta. Un periodo complesso per il paese.

Ci ero già stata prima. Perché avevo studiato letteratura portoghese tra il 1983 e il 1986, grazie a delle borse di studio. Quindi il mio primo contatto, reale e diretto, con il Portogallo è stato da studentessa. Poi, a inizio Anni Novanta, ho avuto un’altra borsa di studio. Sono una delle prime studentesse Erasmus.

Il mio incontro con il Portogallo è stato davvero felice. Prima perché era un Paese che, dalla metà degli Anni Ottanta al 1991, era unico in Europa. Perché non accoglieva ancora quella che era una omologazione, a modelli di vita e di consumo di stampo meramente occidentale. Però anche per questo era un Paese che corrispondeva alle mie migliori aspirazioni. Tra le altre cose, quando sono arrivata nel 1991, ero studentessa ricercatrice di Cinema e non ero ancora nè regista nè artista. Ma avevo una formazione abbastanza particolare, perché vengo dalla letteratura ed ero programmatrice di cinema in Italia.

Negli straordinari Anni Novanta, c’è stato in Portogallo un momento felicissimo, in cui il governo ha favorito la prodeuzione indipendente, che aveva un’energia interdisciplinare che corrispondeva molto al mio animo.

Quindi, il Portogallo era un Paese lontano da quelle forme di consumo che iniziavano a soffocarmi in Italia. Ho sentito che quello che volevo fare lì avesse un senso.

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Un paese che stava esplodendo culturalmente proprio in quegli anni, scoprendo una nuovissima linfa artistica e un forte interesse alle arti in generale quindi?

Assolutamente. E, in questo senso, io oggi vivo il dramma in Portogallo – ne parlo spesso con gli altri colleghi cineasti e artisti – di sentire ogni giorno la difficoltà di capire cosa si possa fare nel Paese come si presenta oggi. Mentre, all’epoca, ho trovato proprio la sensazione che ci fossero dei gesti necessari e possibili. La felicità di poter lavorare sentendosi non solo un soggetto pensante o un artista che individualmente faceva il proprio percorso. Ma mi iscrivevo in una realtàò, in una comunità, in cui aveva senso quello che facevo.

In SEMPRE, tu usi il Cinquantenario dalla Rivoluzione dei Garofani per analizzare il percorso, anche drammatico, intrapreso dai portoghesi per ricostruire la loro comunità

E affrontare anche la complessità dei problemi che dovevano risolvere.

Quanto è stato difficile dare questo tipo di discorso partendo da un paese che sta facendo fatica a ritrovare questa eredità politica e artistica?

Non è stato difficile perché ho lavorato in un ambito privilegiato. Che è quello cinematografico. E l’invito della Cinemateca Portuguesa mi è stato rivolto perché volevano sì una regista coinvolta nel sistema nazionale, ma che fosse in grado di tenere una certa distanza da quei fatti. Quindi, una scelta coraggiosa da parte loro. In questo senso, cito José Manuel Costa, che è stato un grande Direttore della Cinemateca e ha concluso il proprio mandato con questi inviti per il 25 Aprile.

Per me è stato forse il momento più felice del mio percorso in Portogallo. Perché ho sentito un senso di appartenenza e una responsabilità enormi.

Io vivo inquieta col presente in Portogallo. Sento un Portogallo che si sta in un certo senso trasformando in una colonia. Una colonia dei grandi flussi di capitale che stanno speculando su un paese che stava facendo un proprio percorso. Questo è successo anche grazie al cedere terreni. Il Portogallo ha venduto il suo territorio, le sue case, le sue città, la sua cultura. Addirittura, se scendiamo nel quotidiano, la cultura gastronomica.

Io vivevo in una realtà che era singolarmente fedele al proprio percorso e aveva la possibilità ancora di scrivere una storia in autonomia. Che non significa non credere nell’Europa. Io credo enormemente nell’Europa, l’ho sempre fatto. Ho costruito tutta la mia vita credendoci. Ma credendo nel valore della specificità. Il Portogallo era questo.

Tornando a SEMPRE, io ho vissuto il privilegio di poter parlare al presente della storia. E di poter cogliere nella storia quale sia il germe e il legado, l’eredità che la storia ci lascia. Per poter continuare il futuro.

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Nel tuo film, uno degli elementi che sottolinei è l’uscita, tragica, del Portogallo dal colonialismo. La decolonizzazione traumatizza il Paese. Su questo aspetto, usi un montaggio estremamente dinamico. Ci vuoi così riportare al presente?

Sì. E lo faccio grazie a due film straordinari. Mueda (film del 1979 di Ruy Guerra, considerato il primo lungometraggio di finzione realizzato in Mozambico e che racconta del tremendo massacro avvenuto nella località mozambicana nel 1960, NdR), che parla dell’autorapprasentazione, di come il Cinema possa servire a scrivere un’altra storia, un altro punto di vista rispetto a quello ufficiale.

E, poi, il film del regista portoghese Rui Simões (Deus, Pátria, Autoridade, 1976, NdR). Questi due film rispecchiano i dialoghi che io sento fare nella quotidianità in Portogallo sui migranti. Non ho nemmeno avuto bisogno, partendo da questi due film, di infiltrarmi nel presente. Perché già lì ci sono elementi di ciò che si pensa ancora oggi.

Qui sta anche l’importanza del montaggio. SEMPRE è costruito con una fede profonda nella figura e essenza del montaggio. La possibilità di creare, attraverso il montaggio, di creare l’autorappresentazione. Permettendoti di accompagnare alla realtà una che rappresenta il presente. Dinamizzando il pensiero. Perché io voglio che lo spettatore, davanti alle immagini, pensi al proprio presente, a quanto non stia riuscendo a pensare al futuro del paese.

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