Una notte in corsia. Due infermieri costretti a fare il turno di notte notturno in una calda sera di Ferragosto. Entrambi vorrebbero essere altrove. Entrambi trovano un modo per scongiurare il fatto che non debbano passare le festività di nuovo lontano dalle famiglie. E scommettono sulla morte di un paziente alla fine del turno. Questi i presupposti della dark-commedy La scommessa, opera prima nel lungometraggio di Giovanni Dota, presentato ieri nell’ambito delle Notti Veneziane alle Giornate degli autori.

La nostra recensione

Angelo (Carlo Buccirosso) e Salvatore (Lino Musella) sono l’archetipo del pregiudizio che ogni italiano ha del corpo infermieristico: svogliati, poco empatici, distratti. Il loro vagare in corsia è dettato dal fatto che vorrebbero essere ovunque, tranne che tra quei letti arruginiti e quelle stanze che sanno di disinfettante. La scommessa che fanno è l’ulteriore gesto di scherno nei confronti di Caputo (Vittorio Ciorcalo), paziente critico che arriva nella loro corsia coln poche speranze di sopravvivenza.

Attraverso di loro Giovanni Dota non vuole accusare la categoria. Quanto piuttosto mostrare come il vero malato non giaccia in uno di quei letti d’ospedale. Ma sia il sistema sanitario stesso ad essere morente. Le cui poche risorse economiche a disposizione hanno ormai sfiancato anche quelle umane. Costrette a bassi stipendi a poter sperare solo in una vacanza offerta dalla mamma (la rassegnazione con cui Lino Musella racconta il suo viaggio con mammà sa di quella di una generazione che non riesce più a farcela da sola) o che ormai vanno a lavoro solo per poter passare qualche ora lontano dalle pressioni coniugali.

Notti veneziane La scommessa
Ph. Chiara Calabro

La scommessa è anche il loro modo di trovare un diversivo alla noia che ormai provano a svolgere il loro lavoro. Perché ha da passà a’ nuttata quando di stare in corsia non ne avresti proprio voglia. E quando la sola idea di dover passare il Natale tra quelle mura spoglie e fatiscenti ti porta allo sconforto.

Inizia così un gioco tra la vita e la morte. Con Salvatore intento a cercare di far sopravvivere il proprio paziente. Mentre Angelo non vede quasi l’ora di poterlo dare per spacciato. Lo scopriremo alle 7 del mattino. Col lo scorrere del tempo cadenzato dal movimento delle lancette di un orologio. Un quadrante che sa di speranza. Con il logo del Napoli a mostrare a tutti che quello sia un simbolo non solo di fede calcistica, ma anche tutto ciò a cui, malgrado tutto, non si potrà mai smettere di di fare affidamento.

L’intervista al regista, Giovanni Dota

Il tuo cortometraggio, saggio di diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia si intitola Fino alla fine e ha un legame attoriale con questo film. Anche in quel caso, uno dei protagonisti è Lino Musella. Come quanto è cambiata la tua visione cinematografica da quel cortometraggio e quanto di quel corto hai portato con te in questo lungo?

C’è assolutamente una costante con Fino alla fine. Oltre che attoriale secondo me anche di tono e di modo di voler raccontare attraverso la commedia. Qualcosa che va un po’ oltre, un po’ più nel profondo. Ridere per ridere ci piace, ma non era la nostra intenzione, la nostra intenzione è sempre ridere per ferire. Secondo me, è perfettamente in tradizione con la nostra commedia, da Monicelli che dicevano che la commedia era, la commedia italiana erano tragedie che facevano ridere. Questo è una cosa che a me ha colpito sempre tanto. Ho sempre trovato molto brillante l’utilizzo dell’ironia come arma per raccontare e ferire un po’ il paese, un po’ quello che non ci
piace e che vediamo intorno a noi.

Questo è nato sicuramente con il cortometraggio è nato sicuramente, con cui si sono messe le basi per questo tipo di riflessioni; tant’è che la sceneggiatrice (Giulia Magda Martinez) con cui ho scritto quel corto è la stessa di ora. Ho aggiunto in questo nuovo percorso Matteo Visconti, che è una persona che mi piace molto perché ha il nostro stesso cinismo e con Lino (Musella) ci eravamo promessi di lavorare insieme quando fosse arrivato il progetto giusto. Quando poi ha letto la sceneggiatura ha detto è quel film là, è quella cosa là che dobbiamo fare insieme. Lui c’è stato dal primo momento. Poi è arrivato Carlo (Buccirosso) che invece era forse un attore di un altro tipo di commedia, ma ha sposato subito questo nostro atteggiamento, superando le sue perplessità iniziali.

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Ph. Chiara Calabro
C’è un altro elemento in un certo senso protagonista che ti porti avanti da quel corto. Ed è il Napoli. Nel corto si palesa sul finale. Qui invece il Napoli ci accompagna per tutto il film. Perché tu gli fai cadenzare il tempo che scorre tra la vita e la morte. In quel logo sull’olrologio ci ho visto non solo fede calcistica ma proprio il Napoli che dà il tempo ai personaggi.

Allora assolutamente mi fa piacere tu abbia detto questo. A me questo riferimento
diverte molto. In entrambi i lavori c’è effettivamente il Napoli. Io sono un grande appassionato di questo Napoli. Il calcio mi piace, credo che sia una cosa che riempie molto le nostre vite e ho molto rispetto per lo sport.

In entrambi i miei lavori, il Napoli diventa un ritorno a una leggerezza che non sempre è richiesta ai nostri protagonisti. Nel corto, era assurdo che definisse la vita o la morte di un personaggio. Qui, come noti bene tu, è il centro: il Napoli tiene il tempo di questa
vicenda e sapevamo benissimo che il film sarebbe uscito tenendo conto del Napoli campione d’Italia, che è una cosa clamorosa, epocale dopo 33 anni.

In un ambiente dove ci sono persone snoiate, annoiate, sapere che c’era qualcosa che invece durava nel tempo, nell’orologio era come dire l’ancora di salvezza dei nostri personaggi. Che hanno una vita forse mortificata dalle loro scelte, non dalla posizione che occupano. Perché è un lavoro bellissimo l’infermiera, ma loro non lo vivono con passione e forse la passione è solamente lì, in queste piccole cose quotidiane, come quasi a dire non crediamo più a niente ma ci rimane il Napoli.

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Ph. Chiara Calabro
La scommessa – Una notte in corsia appare come un film sulla deriva del sistema sanitario. Quanto c’è di questo e quanto c’è di quello che pensi sulla deriva umana.

L’ambientazione ospedaliera nel nostro film è una conseguenza, non è mai stato un punto di partenza. Noi avevamo bisogno di trovare un mestiere che fosse vicino alla morte e che ci permettesse di avvicinarci alla morte. Chi più degli infermieri del personale medico vive così a contatto con la morte? Al di là di alcuni eventi di cronaca che comunque noi conosciamo. Però la volontà era di puntare dritto sugli esseri umani ed era evidente che in un mondo in cui non si salva nessuno non si potevano salvare gli infermieri e i medici che raccontavano. E’ chiaro che non era l’obiettivo, ma se chi lo vede pensa che ci sia qualcosa di familiare, di riconducibile a delle proprie esperienze, questa interpretazione la lascio a pubblico. Credo che abbiamo lavorato bene nel caratterizzare originalmente i nostri personaggi.

Il legame con Napoli è anche nella scelta del cast. Hai scelto alcuni tra i volti più rappresentativi del teatro (più che del cinema) napoletano, cosa ti ha spinto verso questa scelta e cosa cercavi?

Mi faceva impazzire l’idea di poter, grazie ai personaggi che abbiamo creato, mischiare, confondere e amalgamare diverse generazioni di attori napoletani che io stimo tantissimo. Sono cresciuto guardando il cinema prodotto anche nella mia regione senza mai viverlo come un limite. Era chiaro che questa storia dovesse essere raccontata lì. Non per le malefatte dei personaggi, ma per l’incanto. Per un certo colore, per un certo calore che potessero restituire certi attori. E certi colori che solo Napoli può dare a una storia così nera.

Per me era fondamentale arricchire, una volta trovati Carlo e Lino, un cast di Avengers
napoletani
: ci sono Iaia Forte, Nando Pavone, giovani attori come Biagio Manna, Chiarastella Sorrentino. Tutti attori che sono secondo me molto bravi, tutti già visti in delle belle produzioni napoletane. Mi piaceva averli insieme, mi piaceva vederli insieme e il risultato secondo me risponde a quell’effetto cercato perché abbiamo attori dai 25 ai 65, tutti napoletani, tutti secondo me straordinari, tutti con un grande talento. Averli insieme per me è motivo di vanto.

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Ph. Chiara Calabro
Il film uscirà nelle sale per IWonder Pictures il 12 settembre. Cosa ti spaventa dell’incontro con il pubblico e cosa invece speri ti arrivi?

Mi spaventa il fermarsi al dito che indica la luna. Secondo me il film va oltre certe questioni che sono decisamente superficiali. Credo che però un pubblico contemporaneo sia in grado di comprendere le reali intenzioni. E credo che sia arrivato il momento di essere un po’ più cattivelli anche con i nostri personaggi, di non perdonarli sempre. Anzi, di andare invece a mettere un po’ il dito nella piaga, nelle piaghe di ciò che non ci piace. E dai primi commenti che vedo, c’è secondo me un entusiasmo nel voler vedere una commedia un po’ diversa, un po’ più aggressiva.

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