La seconda giornata della 81a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia parte sulle note di un’Ave Maria. Dopo una lunga serie di rumors, arriva sul grande schermo Maria, film con cui Pablo Larraín torna in concorso a Venezia.

Assiduo frequentatore sin da bambino del Teatro dell’Opera di Santiago, sin da giovanissimo Larraín è un fervente appassionato del bel canto. Parlando del suo amore per Maria Callas, il regista cileno ha dichiarato:

Sono cresciuto con la presenza di questa cantante dal livello straordinario. Qualcuno che aveva una voce da angelo. Poi, ovviamente, ho imparato a conoscere meglio la sua vita. Quindi, dopo aver fatto Jackie e Spencer, mi è sembrato il finale giusto per il percorso fatto con questi tre film. È anche il mio primo film su un’artista e crea una dinamica, anche personale, diversa su come entrare in contatto con il personaggio e la sua storia.

La Callas è morta. Viva Maria.

16 settembre 1977. Una data precisa quella con cui si apre Maria. La camera ci porta con un movimento delicato e lento all’interno del salotto di un sontuoso appartamento di Parigi. Giace sul pavimento il corpo esanime della diva indiscussa dell’opera: Maria Callas. Con lei in casa solo Ferruccio (Pierfrancesco Favino) e Bruna (Alba Rohrwaker), i suoi fedeli domestici.

Mentre il personale medico accorso si prepara a portare via i resti, un’aria riempie la scena. Il canto della Callas continua a riempire la stanza. Un ravvicinato primo piano in bianco e nero di Angelina Jolie aiuta il pubblico a iniziare a riconoscerla nei panni dell’icona. Mentre si alternano al suo volto nella grazia del cantare immagini come se fossero di archivio con l’attrice che ricostruisce alcune delle apparizioni più famose della Callas.

Venezia81 Maria

Da questo momento, Larraín porta lo spettatore indietro di 7 giorni. Facendogli rivivere l’ultima settimana di vita della cantante. E permettendogli di conoscere più da vicino Maria.

Un ciak con la semplice scritta Maria in gesso bianco ci porta nel primo dei 4 capitoli di questo biopic che ha tutta l’intenzione di essere un canto di amore del regista verso una voce che ha sempre sentito amica. Da ora, Pablo Larraín accompagna con riverenza lo spettatore in quei tragici giorni prima che un arresto cardiaco spegnesse per sempre la voce dell’usignolo dell’Opera. I movimenti di camera sono lenti, rispettosi del lutto che sta per colpire il mondo. A soli 54 anni, sola, Maria smette di vivere. Per far rinascere il mito della Callas e portarlo vivido fino ai giorni nostri.

Dopo i fasti di una vita sempre in tournée, osannata da tutto il mondo, Maria si muove stanca e sempre più confusa, tra le stanze del suo enorme e riccamente rifinito appartamento. Oltre agli amati cani e ai premurosi Ferruccio e Bruna, non le resta che il Mandrax (potente sedativo che si procurava illegalmente) come instabile amico. Assumere in dosi massicce compresse di ogni tipo: per dormire, per restare sveglia, per calmarsi, per rianimarsi.

Fatta eccezione per i vocalizzi davanti alla domestica, sono più di quattro anni che nessuno la vede esibirsi. La voce della Divina Callas sembra essersi ormai spenta. Quella che ci racconta Larraín è quello che ne resta: solo Maria.

“Canterò quando sarò pronta a cantare”

Usando l’espediente di una troupe televisiva – reale o creata da una delle frequenti visioni della cantante non importa – Maria inizia a raccontarsi. Non parlando dei palchi calcati, dei suoi successi e della sua indiscussa fama nel mondo dell’Opera. Ripercorre il suo passato nella Grecia invasa dai nazisti. Con accenni a quella madre per la quale non è mai stata abbastanza. Rivive il costante senso di dover compiacere qualcuno, che si tratti di un genitore, di un amante (il suo grande amore, Aristotele Onassis, continua a andare a trovarla nel suo letto ogni notte nelle sue visioni), di un amico, del pubblico. Maria vorrebbe riprendersi la propria libertà. Ma è lei stessa a essersi voluta trasformare in un usignolo in gabbia. Ormai senza voce e con le ali tarpate dalle dipendenze.

La recensione

In Maria ritroviamo la premurosa cura e attenzione con cui Pablo Larraín guarda alla rappresentazione del femminile. E ai danni provocati dalla solitudine. Lascia che la sua Angelina Jolie – Callas vaghi per una Parigi maestosa e deserta. Sola con i suoi pensieri e i suoi rimpianti. Continue costrizioni a legarne le azioni: non può più cantare, non può più amare, non è libera di finire di distruggersi con i suoi prolungati digiuni e la sua alimentazione a base di sedativi e barbiturici. Maria è una donna che aspetta che arrivi la fine. Perché solo allora otterrà quello che ha sempre cercato in vita e non ha mai ottenuto: essere amata.

Venezia81 Maria

Per riportarci tutto questo, il regista corre il rischio di prendersi la libertà di due scene forti e potenti. Nella prima, inscena un discorso immaginario con John F. Kennedy, in cui il tradimento diventa un legame tra i due. Nell’altra, sul letto di morte di Onassis, Maria immagina di ricevere la conferma di un amore eterno che non finirà mai, cercando di dimenticare il dramma che ha vissuto dopo l’abbandono del magnate greco.

A guidare il racconto Mandrax (Kodi Smit-Mcphee, che alla mostra stiamo apprezzando anche nel ruolo di Nicholas nella serie Disclaimer di Alfonso Cuarón), alter-ego non solo di quel medicinale così caro alla Callas, ma anche immaginario giornalista a cui la Divina ha concesso un’intervista esclusiva di tre ore. Ma nelle sue parole, nel suo aiutare la donna a ripercorrere i fatti più intimi della sua vita, ci sembra di ritrovare anche lo stesso Larraín. Che cerca di aiutare Maria a ritrovare la sua vera voce e ritrovare la propria identità. Mentre ne celebra l’arte e la vita.

In film arriverà in sala grazie a 01 Distribution.

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