Arriva in sala oggi, non a caso proprio per la celebrazione della Giornata Internazionale dei Diritti delle Donne, Primadonna, film con cui Marta Savina vuole raccontare una storia di autodeterminazione, ricordando una Sicilia arcaica e restia ad abbandonare il proprio retaggio patriarcale.

La vera storia dietro al film

I fatti del film si svolgono in una zona rurale siciliana, sul finire del 1966. Poco dopo i festeggiamenti del Natale. Lia è una giovane donna, che ama passare le sue giornate lavorando la terra con il padre, anche se la gente e le tradizioni del paese la vorrebbero a casa a prendersi cura delle faccende domestiche con la madre. Lia è bella, caparbia e riservata, ma sa sempre capace di dire la sua. Il suo sguardo fiero e sfuggente attira le attenzioni del giovane Lorenzo Musicò, figlio del boss del paese. Giudicandolo arrogante e presuntuoso, Lia non accetta le attenzioni del ragazzo, la cui ira non tarda a scatenarsi. Fino a decidere di prendere con la forza quello che ormai reputa di sua proprietà. Ma Lia fa ciò che nessuno si aspetterebbe mai: rifiuta il matrimonio riparatore e trascina Lorenzo, e i suoi complici, in tribunale.

Primadonna di Marta Savina sposta l’arco temporale di un anno e modifica i nomi dei suoi protagonisti. Ma lo spettatore sa che si stia parlando di uno dei casi giudiziari più epocali della storia del Diritto Penale italiano. Non sfugge, infatti, il chiaro riferimento alla vicenda di Franca Viola, la prima donna italiana a rifiutare il matrimonio riparatore. Il 26 dicembre 1965, a soli 17 anni, Franca fu rapita e violentata da Filippo Melodia, un mafioso locale, con l’aiuto di 12 complici, e tenuta segregata per 8 giorni. Il giorno di Capodanno, i genitori di Franca vennero chiamati dai parenti di Melodia per la cosiddetta paciata, ovvero per un incontro volto a mettere le famiglie davanti al fatto compiuto e far accettare ai genitori di Franca le nozze dei due giovani.

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Il padre e la madre di Franca, d’accordo con la polizia, finsero di accettare le nozze riparatrici e addirittura il fatto che Franca dovesse rimanere presso l’abitazione di Filippo, ma il giorno successivo, 2 gennaio 1966 la polizia intervenne all’alba facendo irruzione nell’abitazione, liberando Franca ed arrestando Melodia ed i suoi complici. Melodia fu infine condannato il 17 dicembre 1966 a 11 anni di carcere. Da questa vicenda partì il lungo e complesso iter procedurale e parlamentare che portò, solo nel 1981, all’abolizione dei reato di delitto d’onore e a quella dell’istituto del matrimonio riparatore.

Storia di donne, raccontata da donne

Vincitore del Concorso Panorama Italia all’ultima edizione di Alice nella Città, con Primadonna si cerca non solo di ricordare il coraggio di Franca Viola in un sistema che voleva la donna soggiogata ai desideri (anche più biechi) degli uomini. Ma di ripercorrere una storia fatta di ricerca dell’autodeterminazione femminile e di possibilità di decidere del proprio corpo come del proprio onore.

La regista Marta Savina ribadisce proprio questo nelle sue note di regia:

La necessità di raccontare questa storia viene da una riflessione intorno al tema dell’autodeterminazione. È da sempre stato affascinante per me cercare di capire come reagire agli atti di violenza e prevaricazione senza da un lato cedere alla violenza della vendetta, e da un altro evitando di diventare una vittima. La storia di Lia nasce appunto dalla ricerca di una terza strada, molto spesso negata alla donna – sia nella realtà che nel cinema – che viene relegata a ruoli binari: Madonna o sgualdrina, vendicatrice o sottomessa, moglie o zitella.
C’era poi la volontà di raccontare una Sicilia arcaica e legata alle tradizioni, che io ho vissuto in prima persona attraverso la mia famiglia paterna, e che fosse però lontana da cliché di genere, cercando di raccontare i personaggi attraverso un territorio selvaggio e impervio come quello dei Monti Nebrodi, dove i paesi conservano ancora un sapore fuori dal tempo – ed era questa dimensione di atemporalità che volevo infondere al film, perché una storia ambientata negli anni 60 potesse continuare a risuonare anche per il pubblico contemporaneo.
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A dare incisività in scena al pensiero della regista e alla tenacia di Lia è l’attrice Claudia Gusmano. Con ormai oltre dieci anni di carriera alle spalle (prevalentemente nel mondo della serialità italiana, dalla prima esperienza di Distretto di polizia nel 2007, passando per Don Matteo e la seconda stagione di La mafia uccide solo d’estate), in Primadonna la Gusmano riesce a donare al suo personaggio un equilibrio quasi perfetto tra grintosa determinazione e l’essere ancora poco più che una bambina in un mondo che la vorrebbe già donna (quel ripetuto non sei più una ragazzina della madre che suona quasi come un monito). Il suo sguardo fiero è funzionale al raccontarci come Lia voglia sì sentirsi integrata nella vita del paese. Ma senza che sia la gente a decidere quale debba essere il suo posto.

Tra dialetto e giuste scelte di cast

La scelta della Savina di ricorrere quasi interamente al dialetto nelle relazioni ed interazioni tra i suoi personaggi vuole portare maggiore veridicità alla narrazione, ma anche ricordare quel retaggio tradizionalista che per decenni è stato difficile sradicare (non solo) nel Sud d’Italia.

Può farlo grazie alla scelta di un ottimo cast attoriale, di grande profondità e incisività nel rendere lo spessore di personaggi comprimari per motivi scenici, ma pienamente protagonisti nello sviluppo della storia. Ci riferiamo, ad esempio, alla scelta di Fabrizio Ferracane nel ruolo del padre di Lia. L’attore – già volto noto del nostro cinema più autoriale (Bellocchio, i Fratelli Taviani, ma anche Costabile e Di Costanzo) e recentemente coinvolto nel successo su piattaforma della serie The bad guy insieme a Luigi Lo Cascio e Vincenzo Pirrotta) – dona al personaggio di Pietro quella forza interpretativa in grado di riportare la difficoltà di un uomo che vorrebbe sia proteggere la figlia che vivere onestamente la propria vita all’interno del paese.

Oltre a lui, impossibile non citare Francesco Colella. Uno dei volti più incisivi e poliedrici del panorama italiano. Capace di ottime interpretazioni sia sul grande che sul piccolo schermo. E che, in Primadonna, dà voce a tutti coloro che sono stati disposti a farsi mettere alla gogna dalle malelingue pur di rispettare il proprio essere e le proprie decisioni.

Difficile il ruolo del giovane mafioso che è chiamato a impersonare Dario Aita. Il suo Lorenzo è arrogante, violento, presuntuoso. La fisicità del belloccio di paese la mette al servizio di un personaggio in bilico tra la storia della sua famiglia, la non comprensione degli errori fatti, ma, allo stesso tempo, la sorpresa di vedersi accusato per un crimine che era normalità in quegli anni. Come normale la prostituta del paese venisse emarginata, riconosciuta per la professione che esercitava piuttosto che come persona.

E lo sguardo profondo di Thony riporta perfettamente sul grande schermo la tristezza di questa condizione, ma anche la volontà di sostenere il coraggio di una donna che stava trovando il coraggio di combattere contro le malelingue. In una battaglia di giustizia che era anche per lei.

La spietatezza e cecità di una Chiesa, corrotta e collusa e più che interessata a non abbandonare quel retaggio patriarcale che garantiva la sottomissione anche ai valori ecclesiastici del tempo, viene caparbiamente riportata dall’interpretazione di Paolo Pierobon, la cui sottomissione ai voleri della famiglia mafiosa accusata non viene mai meno. Fino a rinnegare la sacralità del suo abito talare.

Primadonna di Marta Savina è una co-produzione Italia-Francia per Capri Entertainment e Medset Film, in associazione con Tenderstories e in collaborazione con Vision Distribution, Rai Cinema e Sky. Lo trovate da oggi, 8 marzo, in sala, distribuito da Europictures.

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